D’Alema si allontana da Roma e teme di perdere la poltrona

La situazione dev’essere ben seria se Massimo D’Alema prima di assentarsi da Roma per una settimana, quasi sulla scaletta dell’aereo che lo portava in Giappone, ha sentito il bisogno di lanciare ai suoi alleati il «sommesso appello» a fargli trovare ancora al ritorno il governo del quale è vicepresidente e ministro degli Esteri. Sulla sua durata invece egli aveva sino a qualche giorno prima scommesso coprendo di beffarde battute chi dall’opposizione ne prevedeva o solo desiderava la fine ben prima della scadenza ordinaria della legislatura. Neppure l’accidentato percorso della legge finanziaria aveva fatto vacillare nei mesi scorsi la fiducia di D’Alema nella capacità di tenuta della coalizione ministeriale, per quanto avesse pure lui alzato ad un certo punto la voce contro i pasticci dei suoi colleghi di governo incaricati di calcolare entrate, spese, tagli e quant’altro.
«Evitiamo di sfasciare tutto», ha invece supplicato adesso il presidente dei Ds lamentando il «logoramento» procurato al governo da uno «stillicidio di polemiche» davanti alle quali egli ha avvertito il rischio che gli elettori dei partiti della maggioranza non possano o, peggio, non vogliano distinguere fra chi può avere torto o ragione, preferendo bocciare in blocco la coalizione. Che d’altronde ha vinto le ultime elezioni per il rotto della cuffia e vive attaccata all’ossigeno residuo dei vecchi senatori a vita.
Una lettura affrettata della lunga intervista alla Repubblica con la quale D’Alema ha improvvisamente lanciato il suo allarme sulla situazione del governo e della maggioranza potrebbe attribuirne la causa un po’ alla sinistra antagonista e un po’ al ministro della Giustizia Clemente Mastella per il fuoco che hanno acceso sotto le pentole, rispettivamente, della missione militare italiana in Afghanistan e delle coppie di fatto. Ma credo che non siano questi i veri fuochi all’origine delle improvvise preoccupazioni di D’Alema, troppo scaltro e consumato per non sapere che spesso in politica le polemiche quanto più sono rumorose tanto più sono recuperabili. Ho il sospetto che sia più il sommerso che l’emerso ad allarmare l’astuto ministro degli Esteri. Il sommerso è rintracciabile nella coda della sua intervista e si chiama Walter Veltroni, con il quale D’Alema ha una complicata partita aperta da anni, esattamente da quando gli soffiò la segreteria del partito sul filo del traguardo dopo l’eliminazione di Achille Occhetto.
Con l’aria di volerlo aiutare a scansare pericoli, o di volerlo proteggere da consiglieri sprovveduti o, peggio, da tessitori di torbide trame politiche, D’Alema ha praticamente invitato l’ancor giovane, ambizioso e scaltro sindaco di Roma a rientrare nei ranghi. Dai quali invece Veltroni è sospettato di essere uscito proponendosi o lasciandosi proporre per un dopo-Prodi che D’Alema mostra di avvertire ben prima di quanto voglia far credere. «Temo che il precipitare degli eventi produca solo destabilizzazione», ha detto il presidente dei Ds. Che, memore delle lezioni ricevute alle Frattocchie ai tempi del Pci, ha aggiunto: «Nessuno fa guerre preventive contro Veltroni, sia chiaro, ma se oggi si raffreddano gli animi è meglio per tutti». Di sicuro per lo stesso D’Alema, che sa di non poter replicare l’avventura del 1998, quando Francesco Cossiga arruolando dei disperati nel centrodestra lo aiutò a succedere a Prodi a Palazzo Chigi.

L’operazione, del resto, non gli portò fortuna perché gli fece perdere le elezioni regionali del 2000 e spianò la strada alla vittoria di Silvio Berlusconi nel 2001.

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