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D’Alema teme per i nostri soldati: ora rischiano

Il ministro degli Esteri non vuole ridurre il contingente: «In Afghanistan si deve fare di più». E rilancia l’idea di una conferenza che non esclude per forza i talebani

D’Alema teme per i nostri soldati: ora rischiano

da Roma

Preoccupazione per quel che potrà avvenire in Afghanistan, visto che ad Herat sta arrivando la guerriglia talebana, ma con gli Usa «nessuna turbolenza» giura Massimo D’Alema dopo la cena dell’altra sera, a tu per tu con Condoleezza Rice. «In ogni relazione vi sono alti e bassi che, da Paesi amici quali siamo, si cerca di risolvere», l’altra faccia della medaglia dipinta ieri dal portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack. Sarà anche per questo, per evitare il prevalere dei «bassi», che Washington ha evitato di alzare uno stop alla conferenza internazionale sull’Afghanistan che il nostro ministro degli Esteri ha ipotizzato formalmente al Consiglio di sicurezza dell’Onu.
«Può essere una proposta costruttiva», il commento americano. Fatto seguire comunque dal rilievo sulla necessità di «comprendere meglio alcuni dei dettagli» del piano e soprattutto dalla necessità di capire «quale sia l’opinione del governo di Kabul in proposito».
Non moltissimo, ma già qualcosa. E il titolare della Farnesina dunque accelera. Nel suo intervento all’Onu ha chiarito come in Afghanistan «si possa e si debba fare di più» visto che i «progressi sono insufficienti in troppi settori». Il tasto su cui batte D'Alema è quello di un maggior impegno politico e civile. Lo ripete dopo l’intervento in Consiglio di sicurezza, nel corso di un pranzo dei 15 rappresentanti e, infine, in un incontro con il segretario generale Ban Ki-moon. L’idea italiana è quella di un summit aperto a tutti gli Stati confinanti che possa individuare la strada per dare sicurezza e stabilità a quel Paese. Sicurezza, governance, sviluppo socio-economico, cooperazione regionale e protezione dei diritti umani - a suo dire - i capitoli del dialogo. Ma se gli Usa ed Europa (Francia e Germania in testa), sembrano disponibili ad una verifica, restano alcuni ostacoli. In prima battuta il governo di Karzai - ringraziato sentitamente da D’Alema all’Onu per il contributo fornito alla liberazione di Mastrogiacomo - che, almeno fin qui, non pare convinto dell’inserimento in partita di Pakistan ed Iran che, consciamente o meno, hanno fin qui foraggiato la guerriglia. E ancora c’è il discorso dei talebani: pure loro al tavolo della pace? D’Alema evita di prendere di petto il problema come la sinistra radicale in Italia ha fatto in questi giorni: era Karzai a «sostenere la necessità della pacificazione», osserva. Ma non è da ritenere un caso se, poche ore dopo, l’ambasciatore di Kabul a Roma Musa Maroofi, chiarito come il suo governo guardi «con simpatia all'impegno italiano per riportare la pace nel Paese», ma noti anche che Kabul ha aperto ai talebani, «alla condizione irrinunciabile che depongano le armi».
Si vedrà, dunque, anche se al titolare della Farnesina pare che il suo discorso sia stato accolto con interesse ed attenzione. Si vedrà più oltre, anche perché la situazione in Afghanistan è in evoluzione. Proprio D’Alema, al termine del suo intervento ha dovuto ammettere che «la guerriglia sta purtroppo arrivando anche ad Herat» e cioè dov’è distaccata una parte delle nostre truppe (poco meno di 2.000 uomini). «Non credo che i nostri soldati siano in una buona situazione. Stiamo andando ad affrontare momenti difficili», ha ammesso. Anche se, davanti a questa drammatica prospettiva, a suo dire non devono cambiare né i numeri della nostra presenza militare, né tantomeno «il mandato». Al massimo una difesa in armi delle proprie posizioni.
Nessuna novità invece - tornando al rapporto con gli Usa - sui casi Calipari e Abu Omar, che il titolare della Farnesina aveva annunciato di voler mettere sul tavolo con la Rice. «In un incontro informale non si avanzano ipotesi e non ci sono annunci da fare» s’è limitato ad asserire il ministro degli Esteri; secondo il quale ci sono cose che attengono più la cooperazione tra autorità giudiziarie che i rapporti tra Stati.

I quali ultimi poi - secondo lui - sono privi di turbolenze, al di là di quanto dipinto dal dibattito politico-giornalistico italiano.

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