Grazie, Sirianni, per aver difeso la scuola che frequentai dalla prima media fino alla maturità. A giugno saranno 50 anni. Anch'io ero ferita per «ottuso» riferito ad un professore che dava sei per stimolare o per «il periodo più fosco della mia vita». Queste parole le ripete anche un mio caro compagno di allora, docente di Diritto Europeo e che perciò mai volle partecipare a riunioni di classe.
Quanti luoghi comuni nelle lettere! Vediamo se ne metto a posto qualcuno. Così decaduta la scuola? Tra i miei articoli uno abbastanza recente dedicato alla conferenza «Da Dante a Montale», tenuta al Lyceum da quattro allievi di Ida Carniglia, maturandi della III B al D'Oria. Iniziava con «Al Lyceum è avvenuto un piccolo miracolo». Per capire, alcune frasi dei due che parlarono come fiumi in piena. Samuele Fioravanti, a proposito della filosofia: «Ci dice chi siamo e dove andiamo ma per stare nella vita ci serve almeno un pretesto che è il bello comunicato dall'opera d'arte». Poi parole di Jessica La Fauci mi ricordarono Don Giussani: «La mia vita è qui ed ora. L'arte mette in luce per ciascuno di noi una verità diversa, tutte da rispettare».
Altro articolo mio per l'annuale presentazione di libri di ex allievi quando il preside Di Meglio commentò: «Sono tanti gli scrittori ex allievi. Si preparano forse tutto l'anno per non mancare l'appuntamento?». Quellanno erano otto. Il libro di Alice Trabucco, maturità nel 2005 e studentessa di medicina a Pisa, era già arrivato alla Fiera di Torino. Non poco, vi pare? Era una meditazione da ragazza sulle paure che per la caduta di valori incombono «come una tomba» e i «sogni che spingono avanti».
Tra i libri presentati Volevamo fare l'Italia - Memorie segrete di una giovane patriota genovese dai moti mazziniani alla presa di Roma, diario del nonno Camillo di Fabio e Marta Saccomanno. Nell'occasione precisarono: «Il nonno, importante per noi per la sua scelta di un'Italia unita, oggi passa così l'esame d'ammissione al D'Oria». C'era anche un libro di Piera Bruno su un poeta turco, amico dell'Occidente e sostenitore dei diritti delle donne, uno di Rosa Elisa Giangoia su Paganini e un excursus sulla cucina nella Divina Commedia, nato spiegando Dante nell'ultima ora di lezione quando gli studenti già pensano agli spaghetti. Nell'occasione Maria Cristina Castellani, assessore alla cultura in Provincia, aveva donato libri alla Biblioteca perché ad «un'Italia senza steccati contribuiscono i buoni libri, di cui non se ne pubblicano mai abbastanza».
Chiudo la mini-rassegna con Caro D'Oria di Bianca Montale (Sabatelli, 2005). Rievocava «la scuola che le insegnò a ragionare, che formava e non indottrinava». Nel libro anche la caduta dopo il '68 di scuole e Università e due riflessioni dello zio Premio Nobel: «Scuola e cultura corrono su binari paralleli che non s'incontrano»; «A scuola si dovrebbe insegnare la lingua italiana e la buona educazione, il resto è facoltativo».
Anch'io insegnai un anno al D'Oria per fruire di una legge che m'immetteva in ruolo prima dei corsi abilitanti. Ebbi due prime liceo (orario minimo, scelto causa tre figli piccoli). Della classe tutta femminile, la «I», ricordo Fulvia Bardelli che rincontrai al Teatro Archivolto nel momento fulgido in cui accoglieva il Nobel Samarago. Poco dopo al suo funerale tra tante persone che la stimavano, piansi. Avevo amato i suoi temi, allieva un po' contestatrice nello spirito ma educatissima. Con lei ricordo Fontana, un'altra intelligente ribelle, Falcidieno (la grazia), Romeo (l'eleganza del sentire). Della classe mista ricordo Guglielmino che dirige la libreria al Porto Antico, Massocco, brava dottoressa e Cocuzza un suo spasimante. Un giorno avendo adocchiato il posto libero vicino a lei vi andò. Lo pregai di tornare al suo perché non sarebbe stato attento. Obbedì ma dopo due minuti riconquistò la posizione, dicendo: «Non può fare il processo alle intenzioni». Aveva ragione e lo difesi, votando per lui, quando la collega sindacalista della Cgil voleva stopparlo come «piantagrane, figlio di giornalista fascista». Il preside Malco: «È figlio di un tipografo, non è la classe operaia per cui Lei si batte?». Quell'anno non fu allontanato, sì il successivo (avevo lasciato l'insegnamento, grande amore sempre rimpianto).
In breve, com'ero orgogliosa alla riunione dei professori ad inizio di quell'anno. I miei professori del Corso C, fino ad allora il più severo e stimato, scherzavano con me. Diceva Raimondi (e voi aprite i Nobel della Utet in lingua spagnola dove troverete le sue splendide prefazioni): «Come insegnante d'Italiano, farò la tematica». Si associava a lui Gennaro, l'intelligente filosofo inventore della pittura filosofica che ebbe fortuna in Svizzera, Francia, Russia: «Io, la problematica» e la Vielmetti, mamma di una compagna del liceo, che non è più: «E io? Ma la sciatica!». Di Meglio, poi futuro preside, allora come me alle prime armi d'insegnante, disse nell'assemblea un non so cosa che inviperì il preside Malco credendo fosse rivendicazione sindacale. Lasciò l'aula quasi in lacrime dalla collera. A Natale Di Meglio andò da lui per gli auguri con il figlio piccolo per mano e fu pace.
Se parlo del mio D'Oria scado nell'autobiografismo, finisco per nominare solo i miei insegnanti tra i tanti validi. Però la mia classe del ginnasio Gina De Benedetti, (già direttrice della Scuola ebraica, Gina che in guerra a trent'anni si era trovata con i capelli bianchi da sera a mattino), la definì la prima tornata al livello cultural-educativo anteguerra. Prima delle leggi razziali, previdente, aveva convinto allievi a condensare due anni in uno per il diploma. Perciò Bendinelli, commerciante nerviese, bravo pittore, le fu sempre grato. Dei miei compagni potrei citare molti diventati ordinari all'Università e qualcuna Preside di Facoltà.
Un liceo insegna, se sa trovare le parole giuste, che danno forza e medicano. Dalla lettera, in risposta alla mia di commiato come insegnante, quelle del vicepreside Arnolfo Galli (in fama di repubblichino a Salò) che mi aveva incitato a far ricorso per quel posto, mio di diritto anche nell'anno successivo (ma non volli): «Il suo anno al D'Oria così proficuo, sereno e veramente ottimo ha lasciato il tenero ricordo delle cose belle e pulite. Lo hanno maggiormente sentito i suoi alunni attualmente in 2aH che seguono ora metodi ed indirizzi completamente diversi ed ai quali non potranno mai assuefarsi. Da vecchio soldato, penso che lei compì bene, ottimamente il suo dovere, senza timore di pena né speranza di ricompensa».
Galli lo conobbi al mio primo giorno d'insegnamento mentre teneva a bada una delle mie due classi. Era già suonata da cinque minuti la campanella d'inizio, ma stavo vomitando nei bagni della scuola per la paura delle paia di occhi che mi avrebbero soppesato. Nel fare l'appello quel giorno prima di alzare lo sguardo dal registro, timidissima, scrivevo «P» per i presenti, finché non pensai: i voti, dove li metterò?
Può una prima della classe fare questi errori? C'erano altri bravi e, a pari merito con me, Piero Stagno: oggi però noi due, i primi d'allora, divergiamo in politica e in storia. Quel giorno dei «P», per me forse la solita giustificazione della stanchezza: voglio sempre fare tante cose. Come quando verso Pasqua alle medie scrivevo nei temi Bressani con tre «s» e l'insegnante Maciocco-Tassi suggeriva di portarmi in vacanza. Al mio esame di ammissione al D'Oria aveva inseguito i miei genitori per le scale, chiedendo d'iscrivermi con lei «incantata» dal mio modo di fare l'analisi logica. Lei mi voleva bene. E finora, quando sono stanca, sono riuscita a togliere dai miei articoli quella K finale che mi sfugge: Bressanik! Come Diabolik.
C'entra il D'Oria con i miei errori d'allora o di oggi? No certo, avrei il dovere di far meglio se penso ad alti messaggi come da parte di Ferdinando Durand, papà della mia compagna di banco, notato nel 1933 dal critico Enrico Thovez. Sua la poesia che volle si leggesse per lui in morte: «Seppellitimi ai piedi di un ulivo: il mio corpo alimenti un'altra vita». Alla domenica Durand teneva ai figli e alla nuora lezioni di poesia. La nuora Anna imparò e in morte della cognata Ninetta, nel 2004, scrisse: «Eri la primavera del tuo aprile, eri il novembre dei morti. Tu eri la poesia della pazienza infinita e dell'amore. Tu sei con Dio».
E dato che i morti giovani sono più che non si creda, nel 1920 Aldo Bassi aveva scritto per gli allievi uccisi in guerra: «Li educammo ad essere italiani con la parola di Virgilio e di Orazio, con la dolcezza suasiva di Mazzini».
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