Dai club del cabaret al piccolo schermo

P aolo Rossi, professione attore e milanese di adozione. Sei arrivato da Ferrara negli anni caldi...
«Con la mia famiglia abitavamo in Emilia Romagna in una città calorosa e tranquilla, ben più tranquilla della Milano degli anni ’70, movimentata ed imponente. Per me questa città rappresenta il passaggio dall’adolescenza alla gioventù. Io sono arrivato a Milano che avevo 18 anni in quanto mio padre era stato trasferito per motivi di lavoro. Quello era un periodo, gli anni ’70, di grande fermento che in provincia era vissuto sicuramente in modo più ovattato...».
Inserimento difficile?
«Appena arrivato mi scoraggiai perché apparentemente non vedevo possibilità professionali per me. Poi dopo un paio di anni ho trovato finalmente la mia strada e mi sono iscritto ad una scuola di teatro. Così è cominciata la mia carriera».
Hai quindi assistito ai grandi cambiamenti storici di Milano...
«Io in questi anni posso dire di aver vissuto tre grandi fasi che hanno coinciso con altrettante svolte. Dopo gli anni ’70, quelli duri, ho visto la Milano da bere, godereccia. Poi è arrivata Tangentopoli. Fino al periodo attuale: come lo vogliamo chiamare? Non è certamente il periodo migliore, perché gli anni ’70, per quanto fossero anni duri, erano pieni di tensioni creative, di fermento e di discussioni costruttive. Nella “Milano da bere” poi possiamo dire che non si stava male, anche se poi ha portato a Tangentopoli. Oggi invece è un periodo un po’ sottotono, dove non succede quasi nulla».
Ma il Comune sta contribuendo, secondo te, a un rinascimento?
«A me sinceramente la Moratti non piace, non è colpa mia... Certo, bisogna considerare che per me oggi Milano rappresenta soprattutto un punto di riferimento professionale, non vivo appieno la sua quotidianità e dunque non so valutare nello specifico l’operato dei suoi amministratori. Posso comunque dire che ho una visione più globale delle grandi città in Italia e che, in effetti, oggi è sempre più difficile gestirle e governarle».
L’Expo darà realmente una spinta internazionale alla città?
«Non so, questi eventi sono sempre armi a doppio taglio, dovrebbero portare visibilità, finanziamenti e fermento, ma allo stesso tempo attirano gli interessi di chi pensa solo a speculare e se ne infischia del benessere dei milanesi. Una cosa è certa, costringerà finalmente i nostri tassisti a imparare l’inglese...».
Se dipendesse da te quali dovrebbero essere gli investimenti?
«Certamente investirei molto di più sulla cultura, che è penalizzata e da cui invece dipende la capacità di innovazione e sviluppo della società. Io vengo da Ferrara che è diventata ricca e agiata anche grazie alla cultura. Sotto la Madonnina, dopo gli anni ’80, è diminuita molto sia la produzione sia la presenza di spazi culturali.

Nonostante tutto, resto fortemente legato a questa città e intendo continuare a viverci».
Cosa ti trattiene?
«Beh, forse ci rimango perché c’è il “Piccolo Teatro”. Ogni volta che ci passo respiro un pezzo di storia, mi ricorda il grande Strehler...».

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