Politica

Dai comunisti ai «pop brezneviani», ecco la ex-sinistra

Roma, 12 novembre 1989. A pochi giorni dalla caduta del Muro di Berlino, il segretario del Pci Achille Occhetto si reca, quasi clandestinamente in una sezione del Pci emiliano, la Bolognina. Parla per un’ora, dice che «bisogna cambiare tutto». I giornalisti gli chiedono: «Questo discorso lascia presagire anche il cambio del nome?». E lui: «Lascia presagire tutto». È un elettrochoc che sconvolge il partito e i militanti. Inizia con questo strappo un tormento di due anni, in cui il Pci lascerà il posto al Pds. È l’inizio di uno smarrimento identitario da cui la sinistra non si riprenderà più. La Bolognina diventa il modello di transito di altri partiti (ad esempio di An), ma è, ancora oggi, il nodo irrisolto che impedisce al Pd di avere una identità chiara. È una grande rimozione che ha prodotto 14 anni di sconfitte e un grande paradosso. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui, invece di cambiare gruppo dirigente, si cambia partito. La generazione dei Veltroni, dei D’Alema e dei Franceschini è figlia di quella sconfitta. In «Qualcuno era comunista» (Sperling, 750 pagine, 22 euro), raccontando piccole e grandi storie, biografie e lotte fratricide, Luca Telese ricostruisce gli ultimi due anni di passione del comunismo italiano per spiegare l’impossibilità di essere normali dei democratici di oggi. 

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Quando cade il Muro di Berlino, dopo la Bolognina, i tre principali contendenti che si ritrovarono a duellare nel doppio congresso del Pci disegnarono tre diverse ipotesi politiche fra loro antitetiche, ma tutte diversamente sensate. La prima ipotesi era quella che era stata posta, con la veemenza che abbiamo visto, da Giorgio Napolitano. Un ragionamento che suonava più o meno così: è inutile fare troppi voli pindarici, uscire dal comunismo può voler dire soltanto entrare nella grande famiglia socialista, punto, se non lo sia fa si precipita nell’indeterminatezza (ed è una catastrofe). La seconda opzione era quella per cui si era ostinatamente battuto Pietro Ingrao: uscire dal comunismo reale significa tenere aperto l’orizzonte del comunismo esaltando con orgoglio la diversità della nostra storia. Se non si fa questo, si precipita a destra, punto (ed è una catastrofe). La terza ipotesi, di certo la meno popolare, era quella che abbiamo sentito raccontare da Paolo Flores d’Arcais, e che una parte degli occhettiani condivideva: serve un nuovo e moderno partito azionista di massa. Se non si fa questo si finisce nel neocomunismo o nella veterosocialdemocrazia, punto (ed è, indovina un po’, una catastrofe).

Ebbene, sia Occhetto sia D’Alema, nella loro apparente belligeranza e nel loro tratto antropologico evidentemente opposto – in quel 1989 - riuscirono a flirtare con tutte queste ipotesi, e a respingerle tutte e tre in nome di un rilancio apparentemente più radicale, ma in realtà indeterminato. Dal riformismo di Napolitano credevano di prendere lo strumento utile del pragmatismo di governo; dall’orizzonte ingraiano speravano di conservare lo slancio ambizioso dell’utopia; dalla radicalità eticista di d’Arcais mimavano l’ambizione nuovista. Ma alla fine non imboccarono con decisione nessuna di queste strade, precipitando nell’ambiguità e nell’indeterminatezza. Convinti di aggiungere essi stessi, con la loro passione di «giovani turchi» avventurosi, con le loro biografie arrembanti e solide, un valore aggiunto che si rivelò piuttosto un valore sottratto.

L’unica cosa certa – oggi – ripercorrendo l’orgia di parole del tempo in cui tutti si chiedevano come sarebbe stata la nuova stagione che si annunciava, è che invece stava finendo una grande storia. Oggi si può dire senza dubbio che il salvataggio non ha avuto l’esito sperato, e la parola «sinistra» ha ceduto il passo a un aggettivo – «democratico» – che gli stessi protagonisti di quella Svolta, all’epoca, consideravano poco meno che una bestemmia. Il Partito democratico non è arrivato come un traguardo, ma come una resa, o un tentativo di lifting. Non ha prodotto la leadership di una nuova generazione, ma il ricongiungimento con un’altra storia di «post», senza più storia. L’unica differenza fra i post-comunisti alla Veltroni e i post-democristiani alla Franceschini è che i primi si vergognano del proprio passato, e gli altri no.

Questo singolare almanacco di paradossi e di idoli infranti, per i leader del centrosinistra, dovrebbe se non altro rappresentare il segnale che qualcosa di profondo non va: è diventato, invece, una delle altre grandi rimozioni del loro dibattito politico. Dopo quattordici anni di battaglie elettorali sempre e comunque drammatiche (fra le politiche del 1994 e quelle del 2008), è che qualunque postcomunista si sia candidato alla guida del Paese – da Achille Occhetto, a Massimo D’Alema, da Piero Fassino (sia pure in tandem) a Walter Veltroni – è stato sconfitto. Tre coincidenze, scriveva Agatha Christie, fanno un indizio. E in questo caso forse può aiutare il fatto che lo stesso sia accaduto a Francesco Rutelli. Nessuno aveva capito – in quel giorno di jacquerie – che insieme alla storia del comunismo si stava rottamando anche quella del socialismo italiano. E che anche questo ennesimo parricidio (dopo il proprio, anche quello del padre degli altri) avrebbe lasciato un vuoto incolmabile. Anche questo epilogo era già inscritto nella storia del 1989, nel dialogo tra sordi, incompiuto e impossibile, tra Bettino Craxi e Achille Occhetto.
La cosa più difficile da spiegare è come sia potuto accadere che tutti e quattro i leader messi in campo dalla sinistra (o da quel che ha preso il suo posto) dopo il 1989, siano stati tutti sconfitti dalla stessa persona: un imprenditore catodico nato prima della Seconda guerra mondiale che di nome fa Silvio Berlusconi. Una delle prime barzellette che finirono nell’archivio del Kgb, quando l’ironia in Unione Sovietica divenne improvvisamente un efferato reato, fu quella che suonava così: «Un giudice si piega in due dal ridere. Un collega gli chiede cosa c’è di così buffo. “Ho appena sentito la storiella più divertente della mia vita”, gli risponde divertito il giudice.

“Raccontamela”, lo prega il collega. E il giudice: “Non posso! Ho appena condannato un tizio a cinque anni di lavori forzati per averlo fatto...”». Ecco, quando sento parlare molti dirigenti del Pd mi viene in mente quel geniale apologo. Il fondatore del Pds – Achille Occhetto – da molto tempo non fa più parte di quel partito, e tantomeno è entrato in quello nuovo che ha preso il suo posto, tra amarezza, rancori e polemiche. È un paradosso: ma loro non ne hanno mai parlato. Hanno derubricato e rimosso. Parlarne significherebbe prendere atto che lo hanno adulato prima e accoltellato poi, e questo non è carino. Altrettanto curiosamente, anche Romano Prodi, fondatore del partito che ha sostituito i Ds – il Pd – si è dimesso a sua volta dalla carica di presidente: e ovviamente anche lui tra amarezza, rancori, e polemiche. È incredibile: ma neanche di questo si è mai discusso, nel Pd. Farlo, avrebbe comportato prendere atto che fino al giorno prima della sua caduta Prodi era considerato un grande statista, e che un attimo dopo è stato degradato a un re Tentenna, debole e incapace. E anche questo, ovviamente, non è carino.

L’ultimo archiviato è stato Walter Veltroni. Era stato acclamato, persino dai suoi peggiori nemici, come un salvatore della patria. Si è dimesso una mattina, con una conferenza stampa tenuta nella cornice suggestiva del Tempio di Adriano, e da quel giorno su di lui non si è più ragionato. Farlo avrebbe voluto dire che è stato considerato un sindaco geniale, e subito dopo un leader inetto e vocato alla fuga. E quindi nemmeno questo era carino. Meglio non pagare mai il conto, e contrarre nuovi “debiti”. Dopo aver sentito un discorso bello ed elusivo, quello dell’addio di Veltroni, ero rimasto a contemplare le lacrime dei suoi fedelissimi e dei suoi Bruto, tutti in prima fila e assolutamente indistinguibili, e ho temuto che presto anche il suo erede potrà subire un trattamento analogo: tumulazione e rimozione, e un conseguente nuovo debito di analisi, acceso a spese della verità.

Questo avvicendarsi di incoronazioni e giubilazioni io lo chiamo “pop-breznevismo”. Perché nella mancanza di una dialettica democratica, esplicita, ancora oggi i postcomunisti e i loro eredi vivono con fatica l’idea che in un partito ci possano essere maggioranze e opposizioni: scomparso il comunismo, un unanimismo di sapore quasi brezneviano (molto più forte e ipocrita di quello che si respirava nell’ultimo Pci) è diventato il costume di un intero gruppo dirigente. Scomparso il comunismo, i suoi epigoni – proprio come l’homo sovieticus perfettamente immortalato da Berlinguer – non dicono mai la verità, e producono caramelle che rimangono attaccate all’incarto. Dicono che non sono più comunisti, e addirittura che non lo sono mai stati: eppure, nella loro vita interna, non sono mai riusciti a propiziare una sfida fra alternative chiare, un duello fra programmi e leader come avviene in tutti i partiti progressisti del mondo. Non c’è stato congresso, dal 1991 a oggi, che si sia aperto senza che se ne conoscesse già l’esito. Il rito del centralismo antidemocratico ha lasciato il posto a quello delle acclamazioni. Si sono spartiti il potere come i Borgia: fra complotti e pugnalate, sempre negando il conflitto e sempre sperando di poter concordare con il più odiato avversario politico cosa avrebbero dovuto fare vincitori e vinti. Tra un colpo di stiletto e uno scappellotto paternalista.

Sempre cooptando il nemico con le regole della prossimità familistica, mai sfidando l’avversario con quelle della democrazia.

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