
Negli Stati Uniti pochi giorni è stato lanciato in vendita un gelato al gusto di "latte materno", un’iniziativa che ha suscitato clamore, curiosità e anche disgusto. Si tratta di un prodotto proposto a New York dalla catena artigianale OddFellows in collaborazione con il marchio per la prima infanzia Frida, in occasione del National Breastfeeding Awareness Month. Per alcuni giorni il gelato è stato offerto gratuitamente nel punto vendita di Dumbo, a Brooklyn, e successivamente messo in commercio online con spedizioni in tutto il Paese.
Occorre subito chiarire che nel barattolo non c’è latte umano: la ricetta si basa su una miscela classica di latte vaccino, panna, zucchero e tuorli, aromatizzata con miele e caramello salato per evocare la dolcezza del latte materno, a cui è stato aggiunto colostro bovino liposomiale, ingrediente già noto nel settore degli integratori, presentato qui come l’elemento “ispirato” al primo latte post-parto.
L’elenco degli ingredienti, disponibile nei comunicati ufficiali, comprende latticini, zuccheri, addensanti e coloranti come l’FD&C Yellow 5, impiegato per simulare la sfumatura giallastra tipica del colostro umano.
L’operazione è stata progettata per suscitare attenzione attraverso l’uso di un tabù alimentare: l’idea di associare il gelato al latte materno, un fluido corporeo che nella nostra cultura resta confinato alla sfera dell’intimità e della cura.
È marketing studiato sulla “zona grigia”, che se la gioca tra il disgusto e lo choc senza oltrepassare davvero il limite igienico e legale di utilizzare latte umano. La strategia ha funzionato: i media statunitensi e internazionali hanno rilanciato la notizia, dai servizi televisivi alle riviste popolari, e davanti al negozio di Brooklyn si sono formate code di curiosi pronti a farsi fotografare mentre assaggiavano il prodotto.
Non si tratta di un esperimento del tutto nuovo: nel 2011 a Londra la gelateria Icecreamists mise davvero in vendita un gelato preparato con latte umano donato, battezzato provocatoriamente “Baby Gaga”. Lì lo scandalo fu pieno, con sequestro temporaneo da parte delle autorità sanitarie, dibattiti infuocati, polemiche etiche e legali, e un successivo via libera condizionato.
L’episodio americano, che si limita a un gusto “ispirato”, evita simili conseguenze ma punta allo stesso effetto mediatico. Dal punto di vista della sicurezza alimentare, il colostro bovino è già utilizzato in integratori e alimenti funzionali con riconoscimenti GRAS negli Stati Uniti, cioè “generalmente riconosciuto sicuro”, pur senza un’approvazione specifica da parte della FDA. In questo caso è quindi legalmente utilizzabile, ma la patina salutistica che l’azienda ha voluto conferire al prodotto rischia di scivolare nel paradosso, perché si tratta comunque di un dolce ipercalorico.
Il vero nodo resta la comunicazione: chiamare un gelato “al latte materno” significa giocare deliberatamente con un tabù, trasformare un atto naturale e intimo come l’allattamento in feticcio gastronomico, travalicare il sacro nel profano, trasformare il nutrimento del neonato in gadget da social network. Non stupisce che molti consumatori abbiano reagito con smorfie di disgusto o con ironia scandalizzata, mentre altri lo hanno provato con curiosità, descrivendolo come “un sapore di cereali immersi nel latte caldo”.
Il successo della campagna di comunicazione è indubbio, ma lascia aperti interrogativi etici: è giusto banalizzare un’esperienza tanto delicata come la maternità in nome del marketing estremo?
Non sarebbe stato più coerente, se davvero l’intento era celebrare l’allattamento, sostenere iniziative concrete come le banche del latte materno per neonati prematuri o campagne di informazione corretta sui benefici e sulle difficoltà dell’allattamento?
La risposta, evidentemente, è che la priorità non era la celebrazione ma la visibilità. Il cosiddetto gelato al latte materno è, in definitiva, un’astuta trovata pubblicitaria: non contiene latte umano, non porta benefici straordinari, non ha nulla di rivoluzionario dal punto di vista nutrizionale.
È, piuttosto, un dessert confezionato per cavalcare l’onda dello scandalo soft, per far parlare di sé, per trasformare il ribrezzo in visibilità e in vendite. E se il pubblico ci casca, tra selfie e recensioni virali, tanto meglio per chi lo ha inventato.
Resta però un retrogusto amaro: il senso di aver assistito non tanto a un omaggio alla maternità, quanto alla
sua mercificazione estrema, al suo travestimento in spettacolo commerciale, dove ciò che dovrebbe restare naturale, intimo e rispettato diventa invece un semplice espediente pubblicitario che di dolce non ha proprio nulla.