Dai contabili all’albo unico L’ordine compie 100 anni

Il presidente Santorelli: «I ragionieri commercialisti hanno accompagnato i cambiamenti del Paese»

Laura Verlicchi

Dalla «nobil professione del ragioniere» all’albo unico della nuova professione economica. Cento anni di storia che s’intrecciano a quelli del Paese, per un Ordine professionale che ha contribuito a pieno titolo a costruirlo, negli anni fiduciosi della Belle Epoque come in quelli difficili delle guerre, in prima fila nel boom economico come nella globalizzazione. Una partecipazione attiva ricordata da tutte le personalità intervenute alla celebrazione dei giorni scorsi in Campidoglio, primo fra tutti il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, seguito dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti, dal sindaco di Roma Walter Veltroni, da David Devlin, presidente della Fee, e da Graham Ward, presidente dell’Ifac (le due più importanti federazioni internazionali delle professioni economico-contabili), e da altri protagonisti della politica e dell’economia. Al presidente del Consiglio nazionale dei ragionieri commercialisti, William Santorelli, il compito di riepilogare le tappe istituzionali e delineare il futuro della professione.
1906-2006: che cosa è rimasto uguale nella professione di ragioniere commercialista?
«Dal punto di vista formale, ben poco. Anzi, direi quasi nulla: troppi e troppo radicali i cambiamenti da quel 15 luglio 1906 in cui il re Vittorio Emanuele III firmava la legge che dava vita a uno dei più antichi ordini professionali d’Italia. Ma se invece guardiamo alla sostanza, vediamo che il tratto caratteristico della professione non è cambiato: quello cioè di vivere e operare immessa nel tessuto economico e sociale del Paese».
Come definirebbe il suo ruolo?
«Sinteticamente, potremmo dire che il commercialista svolge un ruolo di raccordo e di snodo tra i cittadini e la pubblica amministrazione. E questo avviene attraverso una molteplicità di attività, che ne fanno il consigliere, prima ancora che il consulente, dell’imprenditore e il punto di riferimento dei contribuenti e delle famiglie. Senza dimenticare la partecipazione come revisore nella gestione degli enti locali e, soprattutto, l’apporto dato alla magistratura, cruciale nelle procedure concorsuali e fallimentari».
Quali sono, a suo avviso, le date chiave nella storia della professione così come è oggi?
«Vorrei partire dal 1993, quando è stato stabilito come requisito per l’accesso, accanto al tradizionale diploma di ragioniere, il titolo di studio universitario. Una battaglia che ho portato avanti, raccogliendo largo consenso nella categoria, nonostante una certa ostilità istituzionale alla scomparsa di una delle poche professioni accessibili ai diplomati. Ma la nostra era la strada giusta, come dimostra la riforma che oggi, a vent’anni di distanza, stabilisce la laurea come requisito per tutte le professioni»,
La data successiva non può che essere l’albo unico.
«Infatti: e l’una è la conseguenza, in un certo senso, dell’altra. Uguale titolo di studio, uguali competenze, uguali tariffe: il dualismo tra le due professioni, ragioniere e dottore commercialista, era ormai anacronistico e illogico. Così, insieme ai dottori commercialisti, abbiamo operato per giungere all’istituzione di un’unica, moderna professione economico-giuridico-contabile, come hanno fatto i colleghi francesi già negli anni Novanta, e che vedrà i ragionieri commercialisti confluire nella sezione A dell’albo, quella riservata in futuro ai laureati quinquennali».
Ma il futuro che cosa riserva al sistema ordinistico in quanto tale?
«Una domanda che celebrazioni come queste rendono inevitabile: è necessario comprendere come gli ordini, di cui il nostro è uno dei più antichi, possa aggiornare il senso della sua presenza, pena la perdita della centralità che ha avuto finora nel sistema culturale ed economico. E questo implica che le professioni ritornino trasparenti agli utenti, liberandosi dell’opacità causata dalla confusione tra interessi generali e particolari».
In che modo?
«Gi ordini professionali sono e devono restare i custodi dell’etica e della deontologia degli iscritti, a tutela dei soggetti terzi, cittadini e istituzioni. Altro non devono fare. Gli interessi dei professionisti, dunque, devono essere tutelati da altre forme associative.

Una rivoluzione copernicana, certo: ma indispensabile. E sono fautore dell’adozione di forme già sperimentate con successo da altri ordini professionali: le società professionali, ad esempio, come negli studi di ingegneria. E la specializzazione, come i medici».

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