Dai film Disney ai bestseller così si producono i sogni che tutti vogliono sognare

Mainstream, come tutti i concetti-chiave che aprono le porte di un’epoca è una parola a doppio taglio. In un’accezione positiva (quella usata da chi sforna i prodotti mainstream) è la cultura «per tutti», popolare, anzi globale, pensata e confezionata per il grande pubblico, che sa parlare a chiunque, ovunque, in qualsiasi momento; cultura non d’élite, ma di massa: è tutto ciò che viene letto, visto, fruito - e immediatamente riconosciuto - in ogni angolo del pianeta, da Los Angeles a Pechino. In un’accezione negativa (quella usata da chi è obbligato a consumare i prodotti mainstream) è la cultura egemonica, massificante, formattata e uniformata; quella considerata di «bassa qualità», di «genere»; non l’arte ma l’entertainment: è la cultura indistinta, che rende tutti uguali, che obbliga a vedere, leggere, ascoltare, fruire gli stessi prodotti - e che spesso veicolano precisi valori, ecco perché «dominante» - sotto ogni latitudine, dalla California all’Indonesia.
Bene. Ora prendiamo la definizione di «egemonia culturale» che Antonio Gramsci affidò negli anni Trenta ai Quaderni del carcere e riadattiamola - cosa molto facile da fare - al concetto di mainstream: «il dominio culturale di un gruppo o di una classe (le multinazionali delle industrie creative: gli studios, le major, la Sony, Bollywood...) che sia in grado di imporre ad altri gruppi (altri Paesi e altri mercati), attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise (i film blockbuster, i bestseller, la musica pop, i format televisivi...), i propri punti di vista (i valori) fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo». Controllo, in questo caso, prima economico e poi geo-politico.
La dimostrazione di tutto questo è il saggio-reportage del giornalista francese Frédéric Martel Mainstream. Come si costruisce un successo planetario e si vince la guerra mondiale dei media (Feltrinelli), una lunga inchiesta, frutto di un viaggio di tre anni in oltre trenta Paesi, che tenta di capire due cose: uno, come si fabbrica un prodotto culturale in grado di funzionare in tutto il mondo; due, perché a fare questa cosa i migliori restano gli americani, il cui modello è sempre più imitato da Cina, India e Paesi arabi, più alcuni altri «emergenti» come Brasile e Russia, mentre la vecchia Europa è ormai periferica, nel senso che importa tonnellate di cultura di massa ma non riesce a esportare la sua cultura «di nicchia» (dai romanzi francesi ai film italiani...).
Frédéric Martel intervista centinaia di persone, soprattutto i pezzi grossi dei centri di produzione della cultura popolare - studios, network, case discografiche, grandi editori - passando dagli uffici delle major cinematografiche al quartier generale di Al Jazeera nel Qatar, da Mtv alla sede del gigante messicano Televisa. E facendo ciò spiega molto bene come funziona la lobby di Hollywood, che riesce a vendere i propri film da Shanghai all’Africa subsahariana sfruttando la popolarità dei suoi attori-superstar, pianificando scientificamente le date di uscita nei diversi Paesi (in quelli musulmani mai durante il Ramadan, mentre in India il momento ideale è il periodo della festa di Dwiwali, in autunno) e usando quando serve i soldi di gruppi stranieri (come la Sony che controlla la Colombia) ma gestendo il controllo, ben più importante, dei contenuti. Così da detenere il monopolio planetario delle immagini e dei sogni...
Ma Martel racconta anche, a esempio, come in America l’industria cinematografica, quella del grano e quella delle bibite gasate siano strettamente legate una all’altra: più si estendono gli exurb (cioè le nuove «città» che sorgono nelle periferie delle megalopoli), più centri commerciali si costruiscono, più multisala si aprono, più prodotti mainstream si smerciano (la regola seguita dai proprietari di cinema è: «individua una buona posizione per la vendita dei popcorn, poi ci costruisci attorno i multisala», dopodiché Hollywood penserà a produrre più action movie che film sentimentali visto che i primi fanno vendere più popcorn e Coca-cola dei secondi). E analizza il modo in cui Disney sforna prodotti (film, parchi di animazione, spettacoli musicali che partono da Broadway e girano il mondo) capaci di essere attraenti per ogni fascia di età, all’interno di diversi contesti culturali e in grado di diventare universali, cioè - appunto - mainstream. Cioè: narrare una storia semplicissima, con pochi dialoghi, perché difficili da tradurre, e molte immagini, perché facili da ricordare, che si sviluppa su due livelli, cioè quelli dei due spettatori-tipo a cui la fabula è destinata: i bambini e il bambino che c’è in ciascun adulto.
Esiste una nuova geopolitica della cultura, dell’intrattenimento e dell’informazione, complicata dalle nuove tecnologie e dalla «guerra» che le province hanno dichiarato all’Impero. Meglio attrezzarsi. Di mezzo c’è quello che leggeremo, vedremo e sogneremo nel futuro.
Martel studia le pellicole di successo, le hit della musica pop, i bestseller, i format televisivi, i videogiochi globali, spiega perché un giudizio espresso su un libro nel talk show di Oprah Winfrey può segnarne i destini commerciali, ripercorre il processo che ha visto i vecchi critici gatekeeper trasformarsi in «mediatori dell’intrattenimento» (in Italia ci vengono in mente Antonio D’Orrico per i libri e Mariarosa Mancuso per i film, a dimostrazione che il modello attecchisce facilmente), fa notare come i valori difesi dalla propaganda cinese e dai media musulmani ricordino curiosamente molto da vicino quelli veicolati dalla Disney, e dimostra che la cultura «globale» può anche usare parole in hindi o in mandarino o in arabo, ma la sintassi rimane americana.

Confermando l’idea (purtroppo) che il mondo è ormai un enorme outlet, dove la maggior parte dei prodotti «a buon mercato» è statunitense (anche se cinesi e indiani ormai copiano benissimo) e tutti quanti, illudendoci di acquistare qualcosa di esclusivo trovato curiosando nelle corsie laterali, alla fine ci ritroviamo in coda lungo la corrente principale. Che in americano si dice mainstream.

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