L inferno sulla terra, un olocausto senza fine che ancora consuma le vite di centinaia di migliaia dinnocenti. È il Tibet sotto il tallone di Pechino, il Tibet occupato e martoriato, il Tibet raccontato dal Dalai Lama a 50 anni della prima, grande rivolta di Lhasa, a mezzo secolo da quella fuga che lo sottrasse allinvasore. Era un 23enne divino signore allora. È una divinità anziana e troppo umana questoggi. È un signore scoraggiato, ma franco, un leader capace per una volta di usurpare la propria benevolenza e usare parole, sempre risparmiate, per disegnare il vero volto di Pechino. Il volto di un invasore crudele che spinge «i tibetani in un abisso di sofferenza e privazioni dove si sperimenta linferno sulla terra». E quellinferno non si spegne, né si placa . «Anche oggi i tibetani vivono nel terrore costante racconta il Dalai Lama ai duemila fedeli in lacrime saliti a ascoltarlo a Dharamsala, la città indiana dove vive da anni - il popolo tibetano è considerato alla stregua di un popolo di criminali meritevoli di morire, mentre la sua religione e la sua cultura, la sua lingua e la sua identità sono vicine allestinzione».
Incominciò tutto nel 1950 quando la neonata Cina comunista e maoista mandò le sue ondate rivoluzionarie ad annettersi quel regno millenario chiuso tra i picchi dellHimalaya dove Buddha e Dalai Lama erano credo assoluto. Ancora oggi a Pechino e dintorni linvasione e lannessione vengono spacciate per «liberazione». Così, mentre il Dalai Lama commemora linfinito martirio, il regime cinese pubblica un editoriale del Quotidiano del Popolo capace di descrivere quellinferno come unineluttabile fuga dalla schiavitù, una marcia verso la libertà e il benessere. «Nessuno oggi - assicura la voce del partito - spera di andare indietro nella storia , solo qualche schiavista rimpiange la vita di un tempo, la felicità del Tibet è oggi la felicità del popolo non quella dei proprietari di schiavi».
Vallo a dire a Lhasa. Oggi la città è circondata, assediata, guardata a vista da poliziotti e soldati. Sono gli stessi che lanno scorso spararono sui monaci e sui dimostranti uccidendone più di duecento. Gli stessi che nellultimo anno si sono portati via qualche migliaio di sospetti, torturati e condannati a decenni di galera, scomparsi alla vista dopo processi farsa di pochi minuti.
Eppure anche stavolta il Dalai Lama è capace di tornare alla moderazione evocando il dialogo con Pechino, cercando di contenere la sempre più diffusa voglia dindipendenza e lotta armata che rischia di rendere più dura la repressione, più difficile la vita della propria gente. «La nostra causa vincerà», assicura il 73enne leader spirituale ribadendo però i principi della cosiddetta «via di mezzo», la via della moderazione e della trattativa. «Siamo alla ricerca di unautonomia legittima e significativa che ci permetta di vivere nellambito della repubblica popolare di Cina e alla fine la giustizia prevarrà» - promette il Dalai che solo a novembre riconosceva il fallimento dei negoziati con Pechino da lui stesso lanciati alla fine degli anni Novanta. Dallaltra parte del confine, nella terra degli invasori, pochi son disposti ad ascoltarlo.
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