Roma - Miracolo dell’antiberlusconismo: vedere sullo stesso palco D’Alema e Di Pietro, la strana coppia. Il freddo e il rozzo, il banchiere e il contadino, lo skipper e il mozzo, il salotto e la taverna, il gatto e la volpe: dove il gatto ha i baffi d’acciaio di Massimo e la volpe i denti aguzzi di Tonino. Il secondo pronto a sbranare politicamente il primo, sebbene a lui debba le sue fortune politiche. I due si detestano, si insultano, si disprezzano, si truffano ma soprattutto si temono. Da sempre.
Fin da quando l’ex poliziotto di Montenero di Bisaccia brillava nel firmamento di Mani pulite e la sinistra lo snobbava e ne sospettava: è uomo di destra, vicino ai servizi, rude, sfigato. Meglio un Dottor sottile alla Piercamillo Davigo o un radical chic alla Gherardo Colombo. Ma la stella è la stalla, lui, Antonio Di Pietro. Così arriva l’arruolamento da parte di Prodi che lo fa ministro nel 1996 e gli piazza come sottosegretario il dalemiano di ferro Antonio Bargone, avvocato, pugliese, traît d’union, assieme a Latorre, tra Baffino e Tonino. Di Pietro resta poco al ministero: soltanto sei mesi perché, incartato nell’inchiesta sui prestiti senza interessi, Mercedes, corse di cavalli et similia, si dimette per andare in tribunale a difendersi. Ma nel luglio 1997 è proprio D’Alema a corteggiarlo, adularlo, utilizzarlo. Ma anche aiutarlo, visto che in quell’occasione Tonino si sfoga: «Mi sento solo e assediato», gli confida a casa di Bargone, al Testaccio. Ed è Mugello, collegio blindato, e porte spalancate del Senato in virtù di quel seggio lasciato vacante da Pino Arlacchi.
Antonio è ambizioso, avido, scaltro. Comincia a picchiare duro sull’Ulivo, sa che il «che c’azzecca» piace alla gente e gli frulla in testa l’idea di un partito tutto suo. Lo fa nel 1998 con un gruppo di fedelissimi che sceglie personalmente: Elio Veltri sì, Tana De Zulueta no, Silvana Mura sì, Federico Orlando no. Sono gli anni dei girotondi, delle stilettate tipo «l’Ulivo ha finito la sua storia», delle battaglie con lo Sdi, del triciclo, e del solito cruento duello tra Massimo e Tonino. Tra i due sono botte da orbi. Di Pietro ricorda un dossier pubblicato da un settimanale ciellino in cui si facevano le pulci sulle sue chiacchierate amicizie e spara: cartacce espressamente richieste da Alfio Marchini per conto di Massimo D’Alema. Poi rievoca il miliardo portato da Gardini a Botteghe Oscure e dice che i magistrati si fermarono ma solo per via della prescrizione. D’Alema, suo padrino politico, è umiliato e offeso. Lo disprezza: l’ex pm è un ingrato, soltanto un ingrato. E sono scintille, legnate reciproche. Uno, snob, graffia con sarcasmo. L’altro, terra terra, trafigge con perfidia.
D’Alema dice che è colpa sua la sconfitta alle politiche del 2001? Di Pietro scimmiotta Moretti: «Con questi dirigenti il centrosinistra non vincerà mai». D’Alema è sprezzante sui girotondi «soltanto un partitino ininfluente»? Di Pietro lo sbeffeggia: «Se la sta facendo sotto... ». Ormai è chiaro che l’arma che D’Alema ha contribuito a forgiare è una mina che esplode nel centrosinistra. Maledetto Mugello. D’Alema querela Travaglio per quel «sono entrati a Palazzo Chigi con le pezze al c... e ne sono usciti ricchi»? Di Pietro lo bacchetta: «Non si risponde con le querele, sennò fai disinformazione come il centrodestra». Insomma, calci e pugni fino al 2006, anno delle primarie in cui Di Pietro, chiaramente, si candida a leader di tutto il centrosinistra: perde ma vola in consensi e Massimo rosica. Prodi lo richiama al ministero, sede da cui un giorno sì e l’altro pure sputtana Mastella. Ma anche D’Alema. In luglio passa l’indulto allargato ai reati finanziari e il ministro pubblica sul sito i nomi dei parlamentari-mascalzoni che l’hanno votato. Tra questi c’è anche D’Alema. «È sconcertante - scrive Tonino - vedere l’Unione rinnegare il programma che ha presentato ai cittadini. Il cittadino ormai conta meno di zero».
E siamo ai giorni nostri, governo Berlusconi, Di Pietro a cavalcare la piazza, aizzare i violacei, lanciare l’Opa sull’intera opposizione, sobillare i suoi ultras che, appena dopo il Cavaliere vogliono fuori dalle palle Baffino. D’Alema lo sa, disprezza sempre più l’ex pm e sputa veleno: «Contrasto l’arroganza del potere ma anche la protesta qualunquista». E ancora: «Disciamo che il tono di Di Pietro accredita l’immagine di opposizione faziosa e quindi aiuta il governo». Peggio: «I populismi di Berlusconi e Di Pietro sono speculari e si alimentano a vicenda». Astio allo stato puro.
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