Le manette? Uno scherzo. Moratti? Il padrone. Mourinho? L’incantatore. Moravia e Montale? Gli ultimi compagni di avventura: la noia, il male di vivere... No, l’unico, vero, inesorabile (e per ora insostituibile) fattore “M” dell’Inter ha il volto scavato e il guizzo killeristico di Diego Milito. Chapeau all’Inter e al suo scudetto. Inchino a questo straordinario goleador che, ancora una volta, s’è preso la squadra sulle spalle e l’ha condotta in cima alla montagna. C’era da sudare, certo da soffrire, forse da tremare: vedevi lo sguardo ipnotizzato di Moratti e capivi quanto è duro vincere. Anche se è più duro perdere.
Inter più bella, perché sofferente. Ma non quella sofferenza pazza e irresoluta che l’ha portata, tante volte, sull’orlo di un baratro mai evitato. Questa poteva essere l’Inter del 5 maggio, ma ormai è diverso il Dna. È stata l’Inter degli ultimi quattro campionati, che poi fanno quattro scudetti sul campo. Intoccabili e, per certi versi, inarrivabili. Solo il Grande Torino e una certa Juve (Anni 30) sono arrivati a conquistarne quattro di fila. Lo dice la statistica prima della storia: questa è un’altra grande Inter. Questa è la squadra che rispolvera il cannoniere nel momento che conta: capitò due anni fa a Parma. Mancini alle strette, la squadra peggio, primo tempo di sofferenza, la Roma con le mani sul titolo. Ibrahimovic sbuca dalla panchina e fu subito scudetto. Stavolta Milito è risbucato dallo spogliatoio: dodici minuti di gioco, suggerimento di Zanetti, un’idea alla Inzaghi sul filo del fuorigioco ed è subito gol. Oggi sono 27 (21 in campionato), ma la sua colt fuma ed è rimasto un colpo in canna. Ci pensano tutti, non c’è lingua nerazzurra che non associ la parola scudetto a quell’altra: Champions.
A Siena c’è stata un’Inter più umana. Poteva stritolare il campionato e, invece, l’ha fatto vivere fino all’ultimo minuto. Julio Cesar è maestro di thrilling e ci ha provato anche ieri con l’incertezza del buon ricordo. In quel momento la pressione di Moratti è crollata, i suoi 65 anni festeggiati lassù sulla tribuna lo hanno fatto sentire quasi centenario. Mourinho ha nuovamente maledetto l’Italia. «Giocarselo così, fin quasi all’ultimo minuto, non mi era mai capitato. Non è proprio facile». Ci voleva un successo del genere per un’ammissione di debolezza. Per intravedere il volto commosso del tecnico portoghese quando ha lasciato la squadra sola a festeggiare ed ha cominciato a girare per il campo, sventolando come una bandiera la maglietta con il numero diciotto, che poi sarebbero gli scudetti nerazzurri.
Gli sarà bastata quella carezza finale di Moratti, nel sottopasso degli spogliatoi, per fargli cambiare idea sul futuro? Probabilmente no. Ma questa società gli entrerà nel cuore, quanto lui è entrato nel cuore dei tifosi nerazzurri, adulatori compresi. L’Inter ha insegnato tanto a Mourinho, anche a soffrire per uno scudetto. E la partita di Siena è stata una sorta di The end felliniano. Tutti i protagonisti sono sfilati sulla scena, quasi la sceneggiatura fosse stata scritta. Ognuno ha messo qualcosa, come sollevasse la mano in saluto: Zanetti e la sua indistruttibile volontà. Sneijder ercolino sempre in piedi. Quell’Eto’o riveduto e corretto anche nell’ultima recita. Balotelli e la sua fredda follia che, per un tempo, ha trascinato la squadra a caccia di gol che potevano essere straordinari. Cambiasso e Stankovic la vecchia guardia che non molla. Julio Cesar svanitello e fenomeno. Samuel e Maicon determinati e cattivi.
Diego Milito si è preso la scena dopo averla carezzata, lambita, persa e riconquistata con qualche errore. Si è fatto re quando il tempo stringeva e la gente gli chiedeva di mostrare il segno del potere. Lo ha fatto a modo suo. Eppoi ha svelato fierezza e commozione, gioia ed esaltazione. Finalmente le sue reti prendono valore. «Questa - ha raccontato - è stata la più importante della carriera». E così per Moratti, parlando di scudetto. «L’ultimo è sempre quello che piace di più. Soprattutto perché sofferto così tanto». Ora il presidente dovrà pagare due milioni in più al Genoa per le reti decisive del Principe. Ma il sacrificio vale: ha trovato un bomber che ha la seta dei grandi del passato: da Antonio Valentin Angelillo a Ronaldo, da Altobelli a Vieri, da Boninsegna a Rummenigge e Ibrahimovic. E nel futuro potrebbe esserci Balotelli, se non se ne andrà: 19 anni e tre scudetti in casa. Non è da tutti.
Questa è l’Inter del paradosso, dove grazie a Balotelli (sì, grazie a lui e alle mattane, non solo sue, che lo hanno allontanato e riavvicinato) l’unione ha fatto la forza. E l’ha dimostrato pure ieri. «Questa è un’Inter che non ha mai avuto paura di perdere. La Roma è stata in testa solo due domeniche», ha soggiunto Moratti con un pizzico di sfrontatezza. La battuta dice che è un’Inter della gente sfrontata, ha imparato a crearsi nemici dovunque, ha provato a batterli con le chiacchiere e con il gioco, con i gol e con i campioni. I conti dicono che Moratti ha cambiato 20 titolari in cinque anni, ne ha acquisiti sette solo quest’anno. Tutto con un obbiettivo. «Far esplodere la gente di Milano, è il mio piacere». Impresa riuscita. Va ammesso: gli interisti ormai sono esplosivi nel tifo e in campo. I milanisti cominciano ad esser nervosi.
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