Mai fidarsi di uno che portava i Ray-Ban a goccia. Non è credibile. Noi paninari, peraltro, abbiamo sempre preferito i Wayfarer.
Mai fidarsi di uno più grande di te che vuole insegnarti cosa furono gli anni Ottanta. Nel migliore dei casi cercherà di dimostrarti che furono gli anni di plastica, del disimpegno, del riflusso e bla bla bla, come se i suoi di anni - magari i Settanta, quelli del piombo, dell’impegno, della spranga - fossero da preferire; nel peggiore tenterà una patetica rivalutazione fuori tempo massimo: la generazione della moderazione, della stabilità, della concretezza e bla bla bla. Wild Boys.
Comunque, mai fidarsi di uno come Gianfranco Fini che quando avevo vent’anni mi convinse a volantinare per il Fronte della Gioventù e oggi, non so perché, ma ho come una leggerissima sensazione che mi abbia - come dire? - tradito. Ora Gianfranco Fini ha scritto una lunga lettera ai ragazzi dell’89, titolo Il futuro della libertà, sottotitolo Consigli non richiesti ai nati del 1989, editore Rizzoli, e spiegando a loro quale sarà il futuro, vuole spiegare a me - che a vent’anni facevo il cubo di Rubik sotto i 35 secondi e andavo in discoteca con due Moncler, uno con le maniche e uno senza - cosa sono stati gli anni Ottanta...
Mai fidarsi di uno che portava i Ray-Ban a goccia da sanbabilino. Può creare un fastidioso effetto di presbiopia, la difficoltà cioè a mettere a fuoco le cose, o gli anni, più vicini. Come gli Ottanta. E allora, può capitare di scrivere, come fa Fini - uno che sta agli anni Ottanta come le Lumberjack alle Timberland - che i giovani della Generazione X ebbero in The Wall dei Pink Floyd la colonna sonora del decennio e «in Italia vennero chiamati paninari, perché avevano l’abitudine di riunirsi in branchi, con il vespone e il piumino della Moncler, davanti ai McDonald’s».
Spiace contraddire un presidente della Camera, ma i paninari non avevano affatto l’abitudine di riunirsi animalescamente in branchi, ma semmai in compagnie; non lo facevano certo con la Vespa, che notoriamente è un’icona dell’Italia del boom e dei Sessanta, ma semmai con la Zündapp, non a caso la «moto galla», prestigioso prodotto della casa motociclistica tedesca che - solo per caso - forniva le moto alla Wehrmacht; e comunque non si ritrovavano davanti ai McDonald’s (ma quando mai! Negli anni Ottanta in Italia ce n’era uno in piazza Walther, a Bolzano, e dal 1986 in piazza di Spagna a Roma) ma semmai fuori dai Burghy, marchio italiano che soltanto nel 1996 fu acquistato dalla multinazionale americana. E comunque, per la cronaca, i paninari fecero la loro prima apparizione pubblica fuori dalla Pasticceria Paganini a Busto Arsizio e, un po’ più tardi, attorno al bar «Al Panino» di Piazza Liberty a Milano. Wham!
E a parte il fatto che la stessa «Generazione X» è una classificazione posticcia e post-ideologica che per molti versi si adatta meglio ai ragazzi degli anni Novanta (il romanzo di Douglas Coupland è del 1991 e la trasmissione di Ambra Angiolini è del 1995), si tratta solo di un’etichetta. E a noi, notoriamente, piacevano i marchi. Detto questo, degli anni Ottanta si può dire di tutto. Tranne che la colonna sonora del decennio furono i Pink Floyd. Troppo raffinati, troppo impegnati, troppo colti. Gli Ottanta furono quello che furono, nel bene e nel male, perché ascoltavamo gli Alphaville. I want to be forever young.
Pacifici senza essere pacifisti, pieni di idee senza essere ideologici, ricchi senza essere volgari, movimentati senza essere rivoluzionari, addirittura romantici - anzi new romantic - senza essere mielosi, i ragazzi degli anni Ottanta non furono «apatici» e «cinici» (stereotipi che sembrano pescati da Wikipedia), ma inguaribilmente ottimisti e «progressisti», gli ultimi a credere ancora che andando avanti il mondo sarebbe diventato sempre migliore e i primi a capire che le rivoluzioni cambiamo il mondo solo in peggio.
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