La danza da sola non basta più a Carolyn Carlson, la grande coreografa ed étoile americana protagonista di Double Vision, lassolo nato dalla sua collaborazione con il gruppo parigino di visual art Electronic Shadow, in cartellone al Piccolo Teatro Strehler da questa sera a domenica. Ci vuole una scenografia tecnologica per trasformare i suoi gesti in poesia, per fondere e confondere le arti e per dare una percezione sdoppiata della realtà che sotto i riflettori diventa fluttuante, ambigua, a volte indecifrabile.
«Si tratta di un poema sonoro, dove in scena vi sono due personaggi, io ed un video, protagonista a tutti gli effetti dello spettacolo. Un video con il quale dialogo e racconto la doppia visione del presente», spiega Carolyn Carlson, svelando qualcosa ma non troppo di ciò che apparirà in uno spettacolo che ha già conquistato le platee di mezzo mondo. Sul palcoscenico uno specchio sospeso ed inclinato proietta immagini variegate, anche di Giacometti, di Giotto e di tanti altri artisti. E poi cè lei, silhouette in bianco e nero, figura simbolo di unumanità in cerca del soprannaturale, scultura ieratica che si insinua tra drappeggi multicolori e si flette tra immagini riflesse. Ma è realtà o è una doppia visione del mondo? «Nellarte astratta nessuno si chiede cosa sta vedendo, invece appena appare in scena o su un dipinto un personaggio, tutti si domandano il significato della storia», riflette la Carlson, attualmente direttrice del Centre Choréographique National di Roubaix, in Francia. «Ma larte non va capita, va semplicemente guardata. A me, poi, quando danzo piace semplicemente dipingere lo spazio che qui, in Double Vision, proprio per mezzo di quello specchio che riflette ogni movimento, diventa leco del mio corpo».
Tre sono i quadri dellassolo o meglio di questo «raccontar danzando», reso ancora più suggestivo dalle musiche del compositore contemporaneo Nicolas de Zorzi: il «mondo che si vede» tutto dedicato alla creazione della natura, il «mondo che si produce» ossia quello delluomo, della civilizzazione e della metropoli e, per concludere, «il mondo che si immagina», ossia linfinito, la trascendenza, il divino che è in ognuno di noi. «Tutto è cadenzato secondo un determinato percorso. Nella prima parte il video evoca lolfatto e vengono proiettati soprattutto frammenti della natura che io osservo e annuso», racconta la coreografa. «Nel secondo quadro, invece, vi saranno immagini fortissime con le quali in scena non sapevo come interagire, al punto che ho deciso di vestirmi di nero, quasi per scomparire di fronte alla solitudine umana, spesso una conseguenza della nostra civilizzazione che ci obbliga a ritirarci in noi stessi. Nel terzo momento recito anche parole che possono sembrare assurde, tipo Diventiamo una curva dietro la finestra dellumanità, ma che avranno un loro straordinario significato».
Quasi unimmersione nella terza dimensione, dunque, un inno allimmaginazione. La Carlson non teme nemmeno che troppa tecnologia, nella vita come sulla scena, possa danneggiare la sua arte. «Limportante è non farsene divorare», è il suo pensiero, «e lasciare sempre spazio alla spiritualità.
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