DARWIN L’evoluzione della famiglia

Dopo i cinque anni trascorsi sul «Beagle» il grande naturalista sposò nel 1839 la cugina Emma Wedgwood. Un saggio di Randal Keynes sulle gioie e i dolori casalinghi nello splendido scenario di Down House, nella campagna del Kent

DARWIN L’evoluzione della famiglia

Nell’estate del 1838, quando aveva ventinove anni, Charles Darwin prese un foglio di carta e, su due colonne, rifletté nero su bianco. Nella prima colonna, sotto la dicitura «Non Sposarsi», elencò tra le prime cose: «Libertà di andare dove uno vuole - Non costretto a visitare parenti e a cedere su ogni inezia - Perdita di tempo...». Sotto la dicitura «Sposarsi», scrisse: «Figli (a Dio piacendo) - Una compagna costante (e amica in tarda età)...». Soppesò tutti i punti, pro e contro, e concluse: «Mio Dio, è intollerabile pensare di passare tutta la via come un’ape neutra, a lavorare, a lavorare... No, non va. Sposarsi - Sposarsi - Sposarsi. Q.E.D».
Anche se usava la formula con cui si chiude una dimostrazione matematica, Darwin in realtà seguiva una vocazione, quella di marito e di padre, che per il resto della vita avrebbe fatto tutt’uno con il suo amore per la scienza. A leggere il bellissimo libro di Randal Keynes, Casa Darwin (Einaudi, pagg. 356, euro 26, traduzione di Aldo Serafini), sorta di biografia intima di Darwin, della sua famiglia e del clan Darwin-Wedgwood, durante i dieci anni di vita della figlia Annie, morta di «febbre biliare» nel 1851, non si sa se privilegiare, nella personalità di Darwin, la valenza del grande naturalista o quella dell’uomo che, per gentilezza, disponibilità, attenzioni e affetti, pare rappresentare il meglio di ciò che un padre di famiglia vittoriano avrebbe desiderato essere.
Dopo i cinque anni, dal 1831 al ’36, trascorsi a bordo del brigantino «Beagle» navigando intorno al mondo, e dopo i due anni in cui, tornato a Londra, aveva lavorato alle collezioni e ai reperti portati con sé, Charles cercò di capire quali cambiamenti il matrimonio avrebbe portato nella sua vita. Sta di fatto che, pochi giorni dopo aver elencato quei pro e contro, andò in visita dallo zio Josiah Wedgwood II, della fabbrica di ceramiche Wedgwood nello Staffordshire, e rivide la cugina Emma, sua coetanea, vivace e attraente, compagna di giochi fin dall’infanzia.
Si sposarono nel gennaio 1839 (l’anno in cui Charles pubblicò il Viaggio di un naturalista intorno al mondo, che riportava il diario tenuto a bordo del «Beagle»), andarono a stare in una casa che Charles aveva trovato a Londra. Emma la sera suonava il piano per il marito incantato. Era una buona pianista, da ragazza era stata scelta per suonare di fronte alla consorte di Giorgio IV in visita al collegio, aveva preso lezioni da Chopin, e ora Charles le aveva procurato per maestro il virtuoso boemo Moscheles, che era stato insegnante di Mendelssohn.
Charles, nominato intanto segretario della Geological Society, conduceva le sue osservazioni al microscopio, rifletteva sui problemi di classificazione e di «persistenza del tipo» già sollevati dai colleghi, cominciava a farsi l’idea che le specie potessero essere tra loro collegate attraverso una discendenza ramificata. Portava la moglie allo zoo, e ad ascoltare il Messia di Händel e La sonnambula di Bellini; di domenica, pur con tiepida partecipazione, andava con lei alla Chiesa Unitariana. Per schiettezza e perfetta intimità con Emma, non le aveva nascosto i suoi interrogativi in materia di religione, come invece gli aveva consigliato di fare il padre medico, di idee progressiste e liberali, figlio a sua volta di Erasmus Darwin, medico, inventore, seguace di Jean-Jacques Rousseau e di David Hume.
Nacque Willy, e i suoi genitori erano entusiasti. «Il bimbo ha sorriso per la prima volta», annotava Emma nel suo diario. «È un prodigio di bellezza e d’intelligenza», scriveva Charles, scrutando orgoglioso ogni espressione facciale del figlio. Nei dodici anni successivi, Emma avrebbe avuto altri otto figli. La sua vita fu un susseguirsi di gravidanze, parti, allattamenti, svezzamenti e attese di un nuovo concepimento. Quando nacque Annie, Charles ed Emma pensarono che, per far crescere i figli, la vita in città fosse troppo angusta e poco salubre, bastava raccogliere un rametto in giardino e vedere, dalle dita nere, quanta fuliggine vi fosse nell’aria. Trovarono Down House, a Downe, nel Kent, a una trentina di chilometri da Londra, con tanti acri di terra intorno, boschi e prati e cave d’argilla e il famoso «Sentiero sabbioso», che si snodava nel fitto degli alberi, dove Charles avrebbe passeggiato a meditare o accompagnato i bambini in escursioni e scoperte di animali e mille forme di vita, di cui insegnava loro le meraviglie.
Nella nursery, assiduamente frequentata dal padre, la figliolanza si popolava e cresceva, ma pare che una predilezione particolare Charles nutrisse per la piccola Annie. Era graziosa e gaia, era curiosa di assistere al lavoro del padre nel suo laboratorio, sapeva tutto sui coleotteri e i lombrichi, e aveva un piccolo giardino tutto per sé dove poteva coltivare a suo piacere fiori e ortaggi. Quando, in uno scatolone di cianfrusaglie di famiglia, l’autore del libro di cui si parla, in linea diretta nipote della nipote di Charles Darwin ed Emma Wedgwood, trovò l’astuccio di scrittura di Annie e, accanto a questo, una serie di appunti di Charles sull’andamento della malattia che avrebbe portato la figlia alla morte, ebbe l’idea di collegare tutte le tracce della vita di Annie, nei taccuini, nelle lettere, nelle testimonianze familiari.
In quel tempo, le malattie infantili erano assai temute. Nella Bibbia di famiglia erano inserite le annotazioni in cui erano registrate accuratamente, oltre alla vaccinazione contro il vaiolo, la varicella, il morbillo, la scarlattina di cui si poteva morire, e la pertosse. Willy, Annie, Etty e George ebbero la varicella nel 1845; Annie, Etty e Betty la scarlattina nel ’49. La malattia che ghermì poi Annie fu però tutt’altro. Charles, che, forse per un morbo preso nei suoi viaggi, aveva dei periodi di malferma salute, con vomito, vertigini e tremore alle mani, pensò di portare Annie dal dottor Gully, allora famoso, a fare la cura delle acque nella sua clinica a Malvern, dove egli si era ripreso molto bene. Ma le frizioni fredde, i bagni e le compresse sullo stomaco non potevano andar bene per la piccola Annie, che in breve tempo morì, di «febbre tifoide», in realtà di tubercolosi.
Benché nella società di quel tempo la morte di un figlio non avesse il senso di tragedia totale con cui è vissuta oggi, la scomparsa di Annie rappresentò un colpo micidiale per Darwin. Se l’evoluzione delle piante e degli animali, con i loro processi di adattamento, bastavano a spiegare le «leggi della vita» senza bisogno d’interferenze divine, quello era davvero un evento, diremmo noi, di selezione innaturale. Nei trent’anni che seguirono, in cui scrisse le sue opere più famose, dall’Origine delle specie all’Autobiografia, Charles, come d’uso, non parlò mai del suo lutto interiore.

Nel 1869, un giovane americano in visita a Londra, Henry James, poté andare a pranzo a Down House accompagnato da un amico, e scrisse: «Darwin è il più dolce, il più semplice, il più gentile vecchio inglese che abbiate mai visto... Non disse nulla di straordinario, e fu straordinario proprio per questo».

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