De Capitani, re torturato dal potere

Il regista è l’usurpatore di «Amleto», in lotta perenne con l’erede legittimo

Miriam d’Ambrosio

«Questo Amleto è un’esperienza nuovissima, una fatica immensa che mi fa salire e scendere, guardare lo spettacolo dall’esterno, con l’occhio del regista, e poi starci dentro nei panni di Claudio, il re». Elio De Capitani stavolta è nella tragedia in un ruolo voluto che gli sottrae energia per restituirgliela integra, appena quelle battute dette dal suo corpo diventeranno “tessuto”.
Nel suo Teatro dell’Elfo torna il principe di Danimarca, che ha lo sguardo di Ferdinando Bruni e una madre con il volto di Ida Marinelli. La traduzione è di Cesare Garboli che scelse «l’endecasillabo dal suono naturale, facile nel dire e musicalmente perfetto», sottolinea De Capitani. Porgere nel modo più chiaro possibile la parola del testo è fondamentale: «una volta, andando a teatro, si diceva “andiamo a sentire Shakespeare” - spiega il regista -, sentire più che vedere. Ci interessa la salvaguardia della forza comunicativa della parola naturale, dentro il percorso dell’emozione e sempre rispettosi della struttura. La nostra è una recitazione non convenzionale, che ha una forte componente psicologica».
Questo Amleto ha attori nuovi e resta un «laboratorio permanente, come è stato per cinque anni dal 1994 al ’99. La prima regia non era per nulla raffinata, aveva qualcosa di barbarico. Quell’esperienza, quasi primigenia, è servita: lo spettro era un attore serbo che parlava con il suo accento marcato e faceva anche il ruolo di Fortebraccio. La scenografia era da opera lirica, la vicenda collocata nel gelo, nella distanza. Dopo sei mesi già era cambiato, era l’altro Amleto. Ora, i costumi sono contemporanei ma di foggia elisabettiana. L’aspetto visivo è cambiato ma la vicinanza estrema, emotiva, con il pubblico rimane. Comunque, questo Amleto non è ancora nato».
La continuità, il cercare incessante nel pensiero di Shakespeare, nei suoi testi, materia di lavoro con cui costruire e costruirsi, sperimentando. «E la possibilità di sperimentare la dà il pubblico, principale sostenitore con la sua forza - dice De Capitani, che aggiunge: - bisogna combattere il “pensiero piatto” di questi nostri giorni con il pensiero di Shakespeare, che affronta la complessità con la semplicità più assoluta».
Un’ossessione, un fantasma, un’anima da scoprire senza arrivare mai, insieme alle anime che lo circondano, come Claudio, lo zio, il re usurpatore, l’assassino, l’uomo amato dalla regina.
«Io pensavo che Claudio fosse una forza di vita primigenia, uno capace di godere di quello che ha raggiunto, ora non lo sento più così - chiarisce Elio, che ne è anche l’interprete - a un certo punto il nuovo re dice: “Le mie gioie, con lui vivo, non hanno inizio e non l’avranno mai”. Amleto è l’erede legittimo, ingombrante. Claudio è sostenuto da Gertrude che non è sua complice, ignora il delitto. C’è un legame forte tra i due. Il primo marito per lei era un monumento, un padre quasi, il suo primo uomo in senso carnale è Claudio, che si sente attratto dalla regina come da un maleficio. Lui è unito al crimine, non vuole assoluzione, vuole perdono».
De Capitani sta lavorando sul personaggio di Claudio il precario, il torturato dal potere che vacilla. Ma «l’emozione più grande dello spettacolo, quella che mi fa provare la paura - confessa - è Ofelia. Nonostante io abbia deciso tutti i movimenti che deve fare nel manifestare la follia, resto sconvolto.

Prima suscitava pietà, ora dà orrore, l’orrore dello scempio della mente. Viene fuori la dimensione della sessualità femminile e io (Claudio) sono atterrito davanti alla follia di lei. È una tragedia fatta di pensiero e carnalità».

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