L'uomo che camminava sui pezzi di vetro non fa l'opinionista. E non importa se dicono che ha due anime. «Perché in tanti hanno sempre qualcosa da dire, perché si parla sempre, ovunque, di tutto, troppo». Non parla dell'America, non parla dell'Europa, non parla di Renzi e neppure di Grillo, della Raggi o di Berlusconi, non parla di Trump, che lui si diverte a pronunciare proprio come si legge: «trump». «Mi posso prendere il lusso di non rispondere, forse perché non so, o perché su certe questioni non bastano due minuti improvvisati, magari servirebbe un saggio». Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista, fa il suo mestiere. E tutto quello che potresti chiedergli, tutto quello che c'è o non c'è da capire, lo trovi già nel suo canzoniere. Non chiedete ai poeti di spiegare le poesie.
Sta lì, con la faccia buona e il sorriso migliore, con il circo che ancora una volta gli gira intorno, ma di fretta, perché c'è da prendere un altro treno destinazione Sanremo, tra un paio di giorni saranno tutti là, a ubriacarsi di fiori, a contare scarpe, spacchi e vestiti, che è il punto di partenza di ogni spettegolare e a canticchiare sottovoce, con la fame chimica di chi non può perdersi neppure un grammo di adrenalina. Rumore di niente. «Ma che tempo, e che elettricità».
Francesco De Gregori, quello che sta qui, all'Osteria Gusto, naturalmente a Roma, in via della Frezza, alle spalle del mausoleo di Augusto, tomba troppo grande per riconoscersi, forse non è esattamente lui, ma piuttosto il suo doppio, quello che non fugge, ma neppure si dà. Ogni tanto gli scappa il vecchio sguardo di Alice, poi si ricorda che è un artista e riavvolge il sorriso. Dicono che non era simpatico. Ora dicono che invecchiando lo è diventato. Potrebbe rispondere come Jessica Rabbit: «Mi dipingono così». È invece proprio come vorresti che fosse. Come lo hai ascoltato per tutta una vita. «Un ragazzino al secondo piano che canta, ride e stona perché vada lontano, fa che gli sia dolce anche la pioggia nelle scarpe, anche la solitudine». È come lo intravedi. «Guarda che non sono io quello che stai cercando. Quello che conosce il tempo, e che ti spiega il mondo. Quello che ti perdona e ti capisce. Che non ti lascia sola, e che non ti tradisce». Come gli rubi le parole. «Pezzi di ceramica, pezzi di vetro, pezzi di occhi che si guardano indietro». Come le ruba lui. Come il De Gregori che canta Dylan, che è un omaggio e una confessione, perché l'arte è un furto geniale di qualcosa o di qualcuno, è il regalo che Ermes, dio dei ladri, fa ai mortali. Ed è con questa stoffa di arguzia e realtà che completa i doni degli altri, quello di Apollo, di Atena, di Efesto (o Vulcano) e di Dioniso. Ruba, inventa, plasma, mettici i trucchi e la tecnica di un mastro artigiano e poi deraglia e sbronzati fino all'alba. «È la Grecia il posto dove mi sento a casa». Qualcuno gli dice che i giovani cominciano a imitarlo, ci sono canzoni di Dario Brunori o di Calcutta molto degregoriane. «Non lo sapevo ma non è peccato. Duchamp ha messo i baffi alla Gioconda, figurati se è un delitto prendere qualcosa da me».
Sanremo è lì, come una tentazione, non per lui ma per chi fa le domande. Mai pentito per i tuoi troppi no? «No». Quello che aveva da dire lo ha già detto. «Ciao ciao, guarda che belli i fiori in quella città, che mai mi ha vinto e mai nemmeno mi vedrà. Guarda che mare. Guarda che barche piccole che vanno a navigare». Se ne frega del calendario. Chi ha detto che siamo a due passi dal festival. Questo è un buon febbraio per parlare del suo nuovo album. Sotto il Vulcano. Il titolo è rubato al romanzo di Malcolm Lowry. È una profezia? Un monito? Un criptogramma? È un caso che sia ambientato in Messico? È quello che cova sotto il destino dell'Italia? «È un titolo preso in prestito». Ti senti come il protagonista? «Spero di no. Il protagonista è un alcolizzato». È sicuramente il concerto registrato a Taormina, durante «Amore e furto tour». C'è il segno di Lucio Dalla ed è per lui questo disco, ma senza prefiche che piangono. «Ero in Sicilia l'estate scorsa e sono capitato vicino a casa di Lucio, ai piedi dell'Etna, e mi è venuta in mente 4 marzo 1943. Il giorno dopo dovevamo suonare a Taormina, così l'abbiamo messa nella scaletta. Non ho pensato a una celebrazione e neppure a un rito o a un omaggio pubblico. Niente del genere. Solo a questa grande canzone, a come la cantava Lucio e al tempo che è passato senza toccarla». C'è una curiosità. La versione che De Gregori ha scelto è quella della Rai, quella che si dice censurata, dove non ci sono «i ladri e le puttane» ma «la gente del porto», dove non giocava a far la Madonna, ma «la donna con il bimbo da fasciare». Perché? «Lo so che Lucio cantava l'altra versione. Io ho scelto quella con la gente del porto. La trovo più delicata, più dolce e dove più forte sento il senso della maternità».
Dalla e De Gregori come Don Chisciotte e Sancho Panza. La prima volta nel '79, la seconda nel 2010. Uno alto e l'altro basso in tour per una Mancia immaginaria. Non hai mai pensato di rifare un terzo Banana Republic? «Lucio non c'è più». Con qualcun altro. «Con qualcun altro?». Sì, un altro artista? «Con Bélen». E ancora. Ma al posto di Bob Dylan saresti andato a Stoccolma a ritirare il Nobel? «Io sì. Mi sarei messo pure lo smoking. Sono bello in smoking».
Il circo butta via la maschera.
Si va a mangiare. De Gregori licenzia l'alter ego e ti torna a parlare piano e tu lo saluti con un grazie. «Sempre e per sempre tu, ricordati, dovunque sei, se mi cercherai. Sempre e per sempre dalla stessa parte mi troverai».
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