Debenedetti e il catalogo del Novecento

Il recente libro di Antonio Debenedetti, Un piccolo grande Novecento (Manni, pagg. 174, euro 14), richiama alla mente un’altra rassegna di personaggi di spicco nella letteratura e nell’editoria del secolo scorso, I migliori anni della nostra vita di Ernesto Ferrero. L’associazione è motivata dall’eccellente qualità della scrittura dei due autori, ma anche da un difetto comune a entrambe le loro opere: l’assenza di sfondi storici, politici, ideali e «ideologici» che aiutino a meglio comprendere le personalità «narrate». Il libro di Debenedetti ha, rispetto a quello di Ferrero, il vantaggio di una maggiore apertura «topografica», nei confronti della pur feconda clausura einaudiana di Ferrero. Ma entrambi gli autori intendevano non già fare una ricognizione sistematica della produzione artistica e letteraria italiana, bensì una sintetica esposizione di essa attraverso le loro personali competenze e qualifiche professionali.
Un piccolo grande Novecento è in realtà una lunga intervista, condotta da Paolo Di Paolo, animata da una penetrante discorsività che permette al lettore di conoscere personaggi dell’ambiente letterario, soprattutto romano, che a suo tempo sono stati intervistati dall’autore stesso, divenendone spesso amici. È difficile render conto dettagliatamente dei pregi e dei limiti di questo libro. Si possono soltanto esprimere consensi, o dissensi, o perplessità su certi personaggi, sempre tuttavia rappresentati «in movimento», cioè nella dinamica del loro carattere e dei loro «stili di vita», e solo raramente «giudicati» in base alla qualità delle opere: in tal modo questo libro, per molti aspetti singolare, finisce per essere una sorta di romanzo di vite parallele, o intrecciate fra loro, ma tutte emotivamente immerse in un mondo e in una società che le accoglie in sé, ma il più delle volte le angoscia, provocando l’impulso ad esprimere, in prosa o in versi, la parte migliore - nel bene o nel male, nella rassegnazione o nella rivolta - delle singole persone che agiscono sul «palcoscenico» letterario.
Perfette sono le pagine dedicate alla rigorosa didattica, e anche autodidattica, di Giorgio Bassani; e quelle che ricordano l’incredibile sincera dolcezza critica di Niccolò Gallo, finora purtroppo quasi dimenticato, che sembrava quasi scusarsi delle correzioni anche minime che suggeriva a chiunque gli sottoponesse un testo. Drammatico il ritratto di Goffredo Parise; una grottesca e tragicomica apparizione quella di Linuccia Saba, scontrosa e scheletrica, al braccio del suo olimpico e trionfale compagno di vita, Carlo Levi. Un’affettuosa sintesi, quasi narrativa, la presentazione del militaresco e insieme umanissimo «signore del giornalismo» Vittorio Gorresio: ma perché non ricordare di lui anche la frequentazione, in un certo periodo assidua, di Palmiro Togliatti, e la contrastata assegnazione del premio Strega a questo «irregolare» della letteratura? E perché non ricordare anche Volponi, la Ortese, Sanguineti, Luzi, Raboni, figure-chiave della nostra recente letteratura? E perché non informare il lettore, magari cursoriamente, sul contrasto fra sperimentalisti del gruppo ’63 e sfere tradizionali del potere industrial-editoriale, che infine ebbe partita vinta fagocitando i ribelli, e anche la contesa fra arte astratta e arte figurativa, impersonata al vertice da critici e storici dell’arte quali Giulio Carlo Argan e Roberto Longhi, o l’altra, vivacissima, fra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, sulla natura della politica come storia o come cronaca?
Nella «guardinga» caratterizzazione di Natalia Ginsburg si poteva anche ricordare la lettera di Pavese a Giulio Einaudi, nella quale si lamentava per l’insistenza della Tornimparte (allora pseudonimo «protettivo» della Ginsburg) per vedere pubblicato il suo primo testo. E l’amaro compito assegnatole, comunicare a Primo Levi il primo rifiuto editoriale del suo testo Se questo è un uomo. Del resto, è compito dello scrittore anche ricordare eventi sgradevoli: e Debenedetti lo sa bene, giacché in altre pagine ha riferito le confidenze di Anna Proclemer sulla propria intimità sessuale delusa dal marito Vitaliano Brancati, autore del Don Giovanni in Sicilia e de Il bell’Antonio.
Pienamente condivisibili invece le riserve dell’autore, fuori dal coro, sull’opera di Calvino, prediletto nei racconti, soprattutto La nuvola di smog e La giornata di uno scrutatore, e altri fino a Palomar, e sull’intera opera di Pasolini, con il suo «teatrale essere con sé e contro di sé», ma regista di quello straordinario film che è Accattone. Debenedetti è anche capace di severi giudizi «storici». Ad esempio: «Credo che a Roma sia venuta meno la società culturale, anche perché si è fatta sempre più impalpabile, remota la città della gente. Tutti siamo sempre più diffidenti, tutti senza accorgercene viviamo sempre più chiusi in piccoli clan, in piccoli gruppi senza porte e senza finestre. Ci comportiamo un po’ come ospiti, come stranieri nella città dove siamo nati o dove viviamo da una vita. Nemmeno siamo più in grado di sentire quella magica aria quasi di paese che si respirava negli antichi rioni del centro storico.

Niente. Siamo tutti clienti di un ideale supermercato delle idee, dei sentimenti, dei rapporti umani». Ma di ciò non siamo tutti responsabili, a causa dell’affievolirsi e venir meno del nostro impegno civile e politico?

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