Roma - Legalità, moralità, etica pubblica. Messe in cantina le bandiere di Dio, Patria e famiglia, Fini sventola nuovi vessilli per dimostrare che la sua curva è piena di gente per bene mentre l’altra è un covo del malaffare. Mettendo la sordina ai casi Montecarlo e Rai, l’ex leader di An confida nell’oblio e prosegue nella costruzione della sua nuova «cosa». Il Fli, ripete nei suoi molteplici incontri in giro per l’Italia, non sarà un partito ma un movimento «aperto a tutti». Una sorta di fortezza da riempire di gente ma che deve alzare il ponte levatoio nei confronti di «parassiti» e «delinquenti». Operazione encomiabile. Sulla carta.
eccato che all’hotel Ramada di Napoli, venerdì scorso, non pochi abbiano arricciato il naso nel vedere lì, in prima fila ad ascoltare Fini, quella vecchia volpe della Prima Repubblica di Alfredo Vito. Quest’ultimo, aspirante new entry del Fli, non ha nascosto i suoi progetti: «Condivido le scelte del presidente della Camera, sono deluso dal Pdl campano e quindi aderirò al nuovo partito». Imbarazzo? Non da parte del fedelissimo finiano Bocchino: «Vito nel Fli? Perché no? È un bene se viene a darci una mano». Raccontano che lo stesso Fini si sia arrabbiato col fidato Italo nel vedere lì «don Vito» detto «’o sogliola» perché era solito appiattirsi sotto i big della Dc, Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino. Sarà vero? A sentire lo stesso Vito no, visto che l’ex democristiano ha dichiarato papale papale: «Io sono amico di Bocchino però a invitarmi al comizio non è stato lui ma Fini in persona».
Alfredo Vito, democristiano doc, era chiamato «mister centomila preferenze»: tonnellate di voti finite nel mirino della magistratura in piena Tangentopoli. Nel marzo del 1993, infatti, la Camera concesse l’autorizzazione a procedere per voto di scambio nei suoi confronti. Il mese dopo i giudici di Napoli lo accusarono pure di rapporti con la criminalità organizzata ma questo filone finì in un nulla di fatto: prosciolto. Sul resto invece «don Vito» andò a sbattere. Raccontò ai giudici come funzionava «il sistema» in Campania e per un po’ lo chiamarono «’o pentito». L’inchiesta si chiuse con una sentenza di condanna per i reati di corruzione, abuso d’ufficio, violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti e voto si cambio. Patteggiò una pena di due anni, con sospensiva, poi cancellata. Vito restituì volontariamente al Comune di Napoli 5 miliardi e 50 milioni di vecchie lire, frutto di tangenti ricevute nell’ambito degli appalti relativi alla privatizzazione del patrimonio immobiliare del comune di Napoli, ai lavori di ammodernamento della funicolare centrale, al servizio di nettezza urbana nonché alla realizzazione dei parcheggi (appalti Partenopark) e della LTR, la linea tranviaria rapida, inserita nel «pacchetto» dei lavori per i Mondiali del ’90. Va detto che Vito, caso più unico che raro, quando finì sotto la lente di ingrandimento dei giudici, si dimise da deputato, esponendosi così al rischio dell’arresto.
Che il suo nome, tuttavia, venga adesso accostato a Fini imbarazza qualcuno che ricorda il caso di un altro neo fillino, più che chiacchierato. Si tratta di Giampiero Catone, anche lui natali a Napoli, e molto legato all’Abruzzo. Catone entrò nel gruppo del Fli il giorno in cui Souad Sbai fece le valigie. «Meglio Catone della Sbai», si lasciò scappare Granata. «Fesserie», replicarono altri finiani che rievocarono le ombre di Catone. Ex uomo di fiducia di Rocco Buttiglione, inventore a suo dire del nome «Udc», dirige la Discussione e si candida a uomo cerniera tra i finiani e i centristi. Ma a molti futuristi Catone non piace per il suo passato un po’ così. Nel 2001 venne arrestato a Roma per associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata, false comunicazione sociali e bancarotta fraudolenta. Nel 2003 altro arresto, questa volta all’Aquila, per bancarotta fraudolenta. Nel 2007, sempre all’Aquila, indagine per estorsione. Le vicende romane sono state archiviate per prescrizione mentre quelle abruzzesi si sono concluse con l’assoluzione. Ma poi c’è l’ombra dell’affaire Angeli: rivista allora diretta da Paola Severini che denunciò Catone per averla estromessa dal quotidiano.
Per non parlare dell’eurodeputato Enzo Rivellini, condannato in primo grado dal tribunale di Sciacca a tre anni e sei mesi per bancarotta fraudolenta in concorso per il crac della sua Gorigomma spa. Insomma, tra i futuristi qualche malumore c’è in tanti cominciano a pensare (e dire) che Fini deve stare attento a chi imbarcherà in Futuro. E libertà.