Politica

Via dedicata ai partigiani killer

RavennaPiatto e nebbioso. L’orizzonte politico della Bassa Romagna riflette la morfologia di questa terra affogata nelle brume, dove spazio e tempo restano sospesi. A Lugo di Romagna l’orologio della storia si è fermato. E l’amministrazione si limita a controllare il bendaggio dell’illustre mummia, la Resistenza. Quella che - comunque la si chiami - non si processa.
L’antico dogma è stato ribadito il 16 ottobre scorso quando il consiglio comunale, a maggioranza di centrosinistra, ha rigettato la proposta di intitolare una strada alla contessa Beatrice Manzoni, massacrata con i tre figli e la domestica da un commando di partigiani comunisti il 7 luglio 1945. L’occasione era storica: fare un primo passo verso quella pacificazione che nel ravennate tarda ad arrivare. Ancora oggi da queste parti non sono poche le famiglie che serbano rancore per vicende di oltre 60 anni fa. I superstiti e i loro discendenti non mancano di ricordare le tragedie passate e ad ogni ricorrenza si rinnovano il dolore e un odio malcelato. «Compagni, non sbagliate più!», esortava il quotidiano locale La Voce di Romagna alla vigilia del voto del 16. Ma il gesto di riconciliazione non è arrivato. Anzi.
Il Consiglio comunale di Lugo non solo ha negato l’omaggio alla contessa, ma ha provato perfino a infangare la memoria di una donna definita nell’ordine del giorno presentato da Forza Italia «di carità, di benevolenze e di fede adulta e responsabile». I consiglieri azzurri, su sollecitazione del mondo cattolico, credevano che i tempi fossero maturi per ricordare degnamente la contessa, presidentessa internazionale della conferenza femminile di San Vincenzo de’ Paoli, morta gridando ai propri carnefici «Io vi perdono».
Invece ben altri sentimenti hanno guidato la discussione tenutasi nella quattrocentesca rocca estense sede del Comune di Lugo: nel dibattito è venuto fuori di tutto. Che i Manzoni, proprietari terrieri molto in vista, vessavano i contadini e che la contessa Beatrice era iscritta alla Repubblica Sociale Italiana. Prove? Solo qualche vago indizio. Chiacchiere di paese più che altro. Calpestando una sentenza passata in giudicato - emanata nel 1954 dalla Corte d’assise d’appello di Ancona -, Pd e sinistra radicale hanno celebrato un processo popolare. Alle vittime, naturalmente. Sui 13 partigiani comunisti condannati prima all’ergastolo, poi a 19 anni e infine beneficiati dell’indulto, neanche un fiato.
Il vicesindaco, l’ex margheritino Fausto Cavina, si è trovato un po’ a disagio ma poi ha sentenziato: «Non possiamo buttare via la Resistenza». Difatti, a proposito dei responsabili, ha avuto la delicatezza di evitare il termine partigiani: «Sono stati dei banditi, delle schegge impazzite». Con una decisione pilatesca il sindaco Raffaele Cortesi ha creduto di togliersi dall’imbarazzo assicurando un «tavolo di confronto aperto a tutti» per intraprendere «un percorso di riconciliazione». E per farlo non ha trovato di meglio da fare che affidare ulteriori indagini sul caso ai custodi dell’ortodossia, l’istituto storico della Resistenza. Il quale, per bocca del direttore provinciale Giuseppe Masetti, quasi ha anticipato l’ennesima sentenza: «Dai primi elementi della nostra ricerca emerge un legame stretto di collaborazionismo della famiglia e della contessa con i tedeschi occupanti». E dunque, niente strada e tanto disonore.
In realtà, della vicenda dei conti Manzoni si sa già molto. L’eccidio è piuttosto noto anche al di fuori della Romagna. Anche Giampaolo Pansa nel «Sangue dei vinti» riporta il massacro dell’estate del ’45 quando la contessa Beatrice Manzoni Ansidei, 64 anni, fu rapita dalla villa di famiglia, la Frascata, assieme ai figli Giacomo, 41 anni, Luigi, 38 e Reginaldo, 36. La fedele domestica Francesca Anconelli , 51 anni, condivise la loro stessa sorte. Il gruppo di partigiani autore del blitz portò gli ostaggi a Villa Pianta, nelle campagne tra il Santerno e il Reno. Lì avvenne il massacro. Fu ucciso perfino il setter dei conti, temendo che potesse far ritrovare i loro corpi, sepolti tra i filari di viti. Non mancò neanche una macabra iniziazione: il colpo di grazia al conte Luigi fu fatto tirare a un quattordicenne. Meno fortunato fu Reginaldo, sepolto vivo dopo essere stato bastonato a lungo. Un’orchestrina suonava in un casolare vicino, a coprire le urla dei disgraziati.
I corpi furono scoperti solo tre anni più tardi grazie alla tenacia dei carabinieri, più forti del clima di omertà e dei continui tentativi di depistaggio - «I conti? Sono emigrati in America», si diceva - provenienti perfino dalla questura di Ravenna, dove infiltrati comunisti si facevano capire a suon di minacce dai funzionari dello Stato.
Eppure la Corte d’assise d’appello di Ancona tratteggiava un disegno criminoso complesso, preparato a lungo, un’esecuzione «freddamente organizzata»: un delitto commesso per odio di classe contro i detestati «padroni» in attesa della rivoluzione. E per i giudici della Corte di assise di primo grado di Macerata gli imputati tennero «un contegno abominevole, coprendo di veleno e di fango i vivi e i morti». Non basta. Così come non conta neppure il grossolano tentativo di autocalunnia architettato dal Pci per tirare fuori dai guai i 13 sotto processo: dalla Cecoslovacchia sette partigiani si autoaccusarono degli omicidi fornendone una descrizione dettagliata per evitare «un irreparabile atto di ingiustizia». Le toghe non abboccarono e i 13 imputati originari furono tutti condannati. Certo, il vero colpo da maestro del collegio di difesa fu ottenere l’indulto per tutti a causa del «movente politico». Cosicché, di gattabuia, gli assassini dei conti Manzoni ne fecero veramente poca. Nell’estate del ’54 erano già liberi.
Tutto questo non basta e soprattutto non conta. L’istituto storico della Resistenza adesso è chiamato ancora a fare luce sull’episodio, deve accertare se la contessa era iscritta alla Rsi; come se quella tessera potesse giustificare la strage o, quantomeno, il bando dalla toponomastica sinceramente democratica di Lugo.
Eppure per Silvio Pasi, in arte comandante Elic, 28 anni fa non ci furono tante storie. Ebbe la sua brava strada a Conselice, con tanto di taglio del nastro e banda cittadina. Pasi fu ritenuto dai giudici marchigiani la mente dell’eccidio di Villa Pianta. Non partecipò in prima persona ma in quanto capo partigiano della Bassa Romagna, secondo la Corte, non poteva non sapere. Era, insomma, il mandante. Ma nel 1980 si preferì ricordarlo come capo della Cgil di Faenza nell’immediato dopoguerra. Oggi da Lugo fanno sapere che era «un bandito». Chissà se toglieranno la targa.
C’è poi un altro «bandito» a cui sono stati tributati onori postumi. Si chiama Ettore Martini ed è stato uno degli esecutori materiali del delitto dei Manzoni. Quando morì, il comune di Cervia lo ricordò ufficialmente. Martini, condannato anche per altri reati commessi durante la guerra civile, ai tempi del processo riparò in Unione sovietica per rimpatriare solo dopo la concessione dell’indulto. Fu eletto consigliere comunale a Cervia e negli ultimi anni di vita veniva mandato nelle scuole a raccontare quanto era stata bella ed eroica la Resistenza in Romagna. Roberto Zoffoli, sindaco della cittadina di vacanza preferita dai vip, lo ha pianto assieme agli altri amministratori.


Era il giugno del 2006, un giorno qualsiasi smarrito nelle nebbie del tempo.

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