Controcultura

In nome del popolo televisivo

Dal delitto di Cogne in poi i luoghi dei crimini diventano piazze mediatiche. Un saggio spiega quali sono le ripercussioni su indagini e tribunali

In nome del popolo televisivo

Iniziò tutto esattamente vent'anni fa: il 30 gennaio 2002. Da quel giorno il piccolo presepe alpino di Cogne diventa una sorta di set televisivo e Annamaria Franzoni la mamma più scrutata e monitorata d'Italia. Comincia tutto fra quelle vette immacolate: la cronaca nera e la giudiziaria impastate fra di loro in una diretta permanente che trasforma un angolo appartato d'Italia in una piazza mediatica dove milioni e milioni di telespettatori vagliano gli scivolosissimi indizi, si dividono fra colpevolisti e innocentisti come nemmeno ai tempi dei Guelfi e dei Ghibellini, emettono le loro sentenze. Inappellabili, perché chi ha in mano il telecomando non cambia idea: si schiera, di qua o di là, e ripete, nel salotto di casa o a cena con gli amici, le motivazioni del suo personalissimo verdetto. C'è il pigiama, indossato dall'assassino che forse è un mostro ma forse è la mamma; c'è il piumone, sudario di quella tragedia, e il plastico introdotto da Bruno Vespa e prototipo di mille modellini.

Si arriverà al paradosso - scrivono Valerio de Gioia e Adriana Pannitteri in In nome del popolo televisivo (Vallecchi) - che «per ricostruire il naufragio al Giglio della Costa Concordia, Vespa riuscirà ad ottenere addirittura il modellino originale rigorosamente in scala che era stato collocato sull'isola nel centro operativo dei vigili del fuoco, mentre i sommozzatori si devono accontentare di quello della nave gemella Serena». Non solo: sempre «Vespa - notano gli autori - intervistato da Antonella Clerici ha ricordato che i plastici usati nel programma sono nati dopo il delitto di Cogne e ha aggiunto non capisco il perché di tanto clamore. Li conserviamo tutti». Come noi conserviamo nella memoria quel fuori onda malandrino di Annamaria davanti alle telecamere spente ma con i microfoni ancora accesi, dopo aver concesso l'11 marzo 2002 un'intervista a Studio Aperto: «Ho pianto troppo?».

Poche parole che fanno divampare altissime le fiamme dei sospetti, dei retropensieri, dei dubbi amletici.«Una frase che di per sé non significa nulla - è il commento di de Gioia e Pannitteri - Che può esprimere freddezza o semplice pudore dinanzi all'esposizione senza filtri della propria vita o allo stress di trovarsi lì, sotto quelle luci, in balia di qualcosa di più grande di lei».

Un perfetto enigma che offre benzina ai due partiti contrapposti. «Si scruterà il suo abbigliamento, la pettinatura, l'assenza di occhiaie: non ha pianto abbastanza in quei 40 giorni? È andata dalla parrucchiera?».

Sono i quesiti che rimbalzano nelle case del Belpaese mentre l'audience raggiunge picchi astronomici. Un fatto, però, è certo; con quella vicenda terribile, così semplice e però insondabile, nasce nel nostro Paese un nuovo strumento di giudizio: la corte d'assise del piccolo schermo. Che tornerà a riunirsi, in un conclave aperto a tutti, ad Avetrana, al Giglio, a Brembate di Sopra dove muore la giovane Yara, e su e giù per i luoghi delle tante disgrazie e delitti avvenuti negli ultimi anni e divenuti, per ragioni non sempre evidenti, parte della nostra vita quotidiana.

Ecco dunque il libro, l'immersione nel cratere del dolore e dell'informazione urlata, la richiesta il più delle volte di pene esemplari. Gli avvenimenti accadono in diretta, come mai era successo finora, e ci si chiede alla fine se vivano solo di vita propria o la tv contribuisca a trasformarli, a modificarli, a deformarli imponendo loro un canone diverso.

De Gioia, giudice alla prima sezione penale del tribunale di Roma, e Pannitteri, giornalista di lungo corso e volto del Tg1, accumulano elementi e mettono insieme, senza alcuna tentazione moralistica, le mille tessere di un mosaico complesso. A Cogne, sempre lì, ci sono le udienze show dell'avvocato Carlo Taormina e poi arriva Paola Savio, attestata invece sulla linea della discrezione e della penombra. Proprio Savio, in un'intervista alla Rivista di Criminologia, si lascia andare ad affermazioni sorprendenti, su cui sarebbe bene riflettere e meditare: «Sono fermamente convinta che se non ci fosse stato un accanimento mediatico di questo tipo e ci fosse stata più sobrietà e tranquillità nelle fasi processuali che hanno contraddistinto tutto il processo, forse alcune cose sarebbero andate in modo diverso».

Ma non è stato possibile. Come a Brembate di Sopra, dove il 26 novembre 2010 scompare Yara Gambirasio, una ragazzina di buona famiglia. Il suo corpo viene trovato il 26 febbraio 2011 in un campo di Chignolo d'Isola da un aeromodellista e anche questo dettaglio porterà in superficie mille punti di domanda, perché le ricerche ufficiali erano state imponenti ma non avevano portato a nulla.

Comincia una caccia senza precedenti al killer e l'Italia si appassiona al mistero di Ignoto 1, in pratica l'assassino ancora senza volto, il cui profilo è stato ricavato grazie al campione prelevato dagli slip di Yara. Un giallo quasi incredibile: perché di passaggio in passaggio si arriva alla tomba di un uomo morto da un pezzo e da lì, pare evidente, ad un figlio illegittimo che ovviamente porta un altro cognome. Altro che pietà per la vittima innocente, pudore o almeno un velo di privacy. È tutto sotto gli occhi di tutti: l'indicibile sofferenza di Yara, morta sola dopo una notte di agonia a pochi chilometri da casa e da una salvezza che non è arrivata, e poi lo sperma, l'albero genealogico del mostro, i tradimenti di una signora, identificata poi in Ester Arzuffi, che sa benissimo nel suo cuore di essere la madre segreta di quel vigliacco criminale che ha colpito Yara e l'ha abbandonata al suo destino senza scampo.

Alla fine lo prendono, con un arresto spettacolare e sproporzionato, filmato dai carabinieri che si arrampicano sulle impalcature polverose di un cantiere: è Massimo Giuseppe Bossetti che però nega e si ostina a proclamarsi innocente. Pure dopo la condanna definitiva che fa rotolare sulla porta della sua cella la pietra dell'ergastolo. Grappoli di programmi si confrontano sul Dna e su percentuali teoriche di errore infinitesimali, da zero virgola zero zero e ancora meno, e si accapigliano su possibili e fantomatici complotti, manipolazioni e contaminazioni.

Poi «c'è la vicenda coniugale di Bossetti () appetitosa come una telenovela la cui sceneggiatura sarebbe impossibile da inventare». E c'è perfino l'audio originale di una telefonata di Bossetti alla moglie Marita, alla vigilia del verdetto decisivo della Suprema corte. La conversazione, trasmessa da La vita in diretta, Raiuno, il 12 ottobre 2018, «appare concordata e destinata al pubblico televisivo e l'uomo ripete alla consorte di non preoccuparsi e di sperare che questa volta i giudici siano corretti e scrupolosi perché lui è innocente».

L'epilogo è di segno contrario, ma il messaggio è stato lanciato - e chissà come è stato l'impatto con l'opinione pubblica in casi analoghi - e il dibattito pubblico non si affievolisce.

«Del resto - è la conclusione di de Gioia e Pannitteri - per diventare giudici della sventura altrui non è richiesto alcun titolo di studio, alcuna competenza professionale o investitura formale».

Basta schiacciare un tasto e l'udienza ricomincia.

Commenti