Un delitto fantasma tra loschi figuri e fuochi d’artificio

Ogni volta che ci si accosta a un capolavoro di Eduardo la gioia che proviamo alla sola idea di riascoltare la mirabile scansione dialogica del Maestro non va esente dal timore di una contraffazione. E, prima ancora che si alzi il sipario, ci si chiede sbigottiti: «Sarà rispettato o, in qualche modo, più o meno sapientemente trascritto come un agit prop, il messaggio del nostro massimo commediografo degli ultimi cinquant'anni?». Anche se è un timore del tutto ingiustificato perché la parola di Eduardo ha una tale incisività da travalicare indenne qualsiasi tentativo di adattamento alla sensibilità di registi-autori come in passato è avvenuto negli splendidi allestimenti di Strehler e di Alfonso Santagata. Autore, quest’ultimo, di un saggio-spettacolo di straordinario interesse compiuto sulle Voci di dentro con un gran finale in odor di Majakovskij dove, crollate le intercapedini del teatro e ridotto in cenere il deposito-laboratorio di Carlo, il fratello azzeccagarbugli di Alberto Saporito, le stinte figurine della famiglia Cimmaruta si aggiravano come e peggio dei naufraghi del Titanic.
Ora Francesco Rosi, reduce dal successo di Napoli milionaria!, nell’animare l’amara favola dei disinganni gestita in prima persona dal povero Alberto che, vittima di un orribile incubo, crede di aver assistito nella realtà a un orribile assassinio perpetrato sulla carne di un innocente ad opera dei vicini di casa, raggiunge un analogo risultato d’arte nella perfetta mimesi di quegli interni, tra Magnasco e Mancini, cari ai grandi affreschi dell’autore scomparso. Dapprima nella cucina aperta sulla gran piazza inondata dal sole e poi nello sconquassato bric a brac che ospita, tra santi di cartapesta e fragorosi fuochi d’artificio, il delirio dello zì Nicola; il talento visivo di Enrico Job si esercita nel definire quell’habitat ai limiti dell’umana credibilità dove il sogno del delitto mai avvenuto sta per concretarsi, nella miserabile commedia degli equivoci agìta dai finti colpevoli, in un crimine pazientemente predisposto a tavolino.
Con quei fantocci da saga brechtiana precipitati per incanto nella Spaccanapoli dove scriveva Benedetto Croce che, ridotti a mummie pietrificate dall’orrore quando finalmente si scopre l’arcano e la vittima designata ricompare più viva che mai, vengono condannati dall’inesorabile dialettica di Saporito al ludibrio del pubblico in scena e all’esecrazione dello spettatore in sala.

Per merito della perfezione mimetica di Luca De Filippo, insostituibile protagonista e infaticabile direttore di una splendida compagnia che fa onore al teatro italiano.

LE VOCI DI DENTRO - di Eduardo. Teatro di Roma & Elledieffe. Regia di Francesco Rosi, con Luca De Filippo. Palermo, Teatro Biondo, fino al 18 aprile

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