Democratici, flop anche negli iscritti: dai 2 milioni del Pci ai 100mila di oggi

da Milano

Dici, vabbè, nel 1945 erano due milioni, ma era il dopoguerra, la fine del Ventennio, il Pci andava forte per forza. Guardi gli anni Sessanta e i Settanta e gli Ottanta, vedi che sotto il milione mai, e già ti fai delle domande. Segue il Pds: 900mila, 700mila, 600mila, colpa della scissione, ci sta. Poi sono arrivati i Ds, e hanno tenuto: 615.414 iscritti nel 2006, in tempi di antipolitica che vuoi fare di meglio? Il Pd, hanno fatto di meglio. Ma è andata maluccio. Anzi, malissimo. Gli iscritti? Boh. «Centomila, forse duecentomila», dicono gli addetti al tesseramento. C’è una bella differenza, obietti. «Questa cosa è nata male e ora sta andando tutto a rilento» confessano. A rilento e a piccole dosi, visto che il Pd è pure la somma di Ds e Margherita.
È che per un anno c’è stata la guerra. Sulla linea politica, si sa, ma anche su quella organizzativa. Da una parte Walter Veltroni che voleva un partito liquido, meglio se gassoso. Dall’altra Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani a dire che no, meglio un partito solido. Nel frattempo, chi andava nei circoli territoriali a fare la tessera riceveva in cambio sguardi imbarazzati: «Le tessere non ci sono». Ah, allora torno tra una settimana? «No, le tessere non ci saranno». Roba che ai vecchi veniva l’occhio vitreo del rimpianto e ai giovani quello a pesce del vacci-a-capire-qualcosa, tutti orfani di uno straccio di simbolo del senso di appartenenza. E i tesorieri regionali sempre più arrabbiati. Perché senza tessere, niente quote. E senza quote, niente soldi per sopravvivere. Riunioni, documenti, proteste: «È che Veltroni voleva fare il partito con gli sms e Internet» lamentano. Per fortuna hanno vinto D’Alema e Bersani. Solo che c’è voluto un anno: il sì alle Pd card è arrivato solo a luglio, e ad agosto i circoli sono andati in vacanza. E a settembre è arrivata la tegola di «questa benedetta manifestazione del 25 ottobre che Walter la vuol fare a tutti i costi, ma non c’è tempo per fare altro».
Così, il tesseramento va eufemisticamente a rilento. Bloccato. Anche perché il partito che doveva esser gassoso e invece è solido, più che altro sta facendo la ruggine. Le regole infatti sono roba da Soviet. Chi vuole la tessera deve andare rigorosamente nel suo circolo di appartenenza, non uno più in là. E ci deve andare con il documento in mano, e quella per sua moglie no, non gliela diamo, deve venire lei di persona personalmente. Contarle poi è quasi impossibile, perché c’è una commissione nazionale che le riceve, e valuta se ogni iscritto è vivo, se ha pagato la quota, se è degno del partito e via così farraginosamente. È la trasparenza, baby. Di scandali sui pacchi di tessere venduti a chissà chi solo per vincere i congressi non se ne vedranno più, anche se in effetti non si vedono nemmeno i congressi.
Intanto, nel circolo vizioso no iscritti-no soldi, i circoli stanno già chiudendo. Perché finora i gazebo, i dipendenti, le raccolte firme per salvare l’Italia, le feste un po’ democratiche un po’ dell’Unità, le hanno pagate mamma e papà, Ds e Margherita. «Ma non è che si possa andare avanti a ospitare il Pd gratis nelle nostre sedi» si sfoga Mario Amelotti, tesoriere Ds in Liguria. Il suo successore, Giovanni Raggi, viene dalla Margherita e conferma: «Sono in contatto perenne con i colleghi del resto d’Italia. Le regioni in cui il Pd è forte sopravvivono meglio. Ma ci sono aree, come certe province del Veneto, del Molise o alcune zone della Sicilia, in cui i circoli sono in grande difficoltà. Anche l’attività giovanile procede faticosamente. Perché Roma un tesoretto per iniziare non l’ha mai mandato, del resto anche a livello nazionale il partito iniziava da zero».
Adesso che le tessere si fanno, poi, Veltroni ha avuto la bella pensata di abbattere i costi. La tessera dei Ds costava in media 50 euro all’anno, ci pagavi l’affitto o l’Ici, la tassa della spazzatura e le spese condominiali. Quella del Pd invece costa fra i 15 e i 20 euro e vale due anni, e che ci fai?
Non resta che spremere gli eletti. Ma anche lì. I Ds, abituati alla vecchia scuola comunista che li costringeva a versare metà dello stipendio, non hanno fiatato. I Dl già hanno storto il naso. E ancora: riunioni, documenti, proteste. Infine l’accordo, un anno dopo. I parlamentari versano 1.500 euro al nazionale e 1.500 alla regione che li ha eletti. I consiglieri regionali non si sa, ogni regione decide per sé e quasi dappertutto i conti sono ancora all’aria.

Chi protesta perché «io mi son pagato la campagna elettorale», chi mette paletti sulla destinazione dei soldi, chi da quando è nato il Pd non ha più versato né ai Ds né alla Margherita e adesso non avrebbe tanta voglia di pagare gli arretrati dal gennaio scorso.
Ah. Le firme «Per salvare l’Italia» il 25 ottobre pare siano fra i «due milioni e mezzo» e il «molte di più». Quante di più? Eh, «contarle è macchinoso...».

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