La Depressione che risollevò la letteratura a stelle e strisce

Non c’è nulla di meglio di una crisi, di un disastro, vero o annunciato, per produrre della letteratura. Il baratro, infatti, crea la sostanza del romanzo molto più facilmente della normalità. Il maelström annega la noia, dea triste figlia di Opulenza. Basti dire che non ci può essere Decameron senza Peste nera, non ci possono essere Promessi sposi o Colonne infami di manzoniana memoria senza la tremenda crisi secentesca. Quella che spazzò furiosa la Lombardia e l’Europa durante la Guerra dei trent’anni.
Così il proliferare di libri, a cui assistiamo ora, è solo il fenotipo aggiornato di uno dei geni più antichi della letteratura. E, letterariamente parlando, il disastro economico rischia, per paradosso, di fare davvero bene. Il crollo del ’29 la profonda ferita inferta all’ottimismo anni venti, ballati a ritmo di Ragtime, sono stati, per certi versi, una delle molle più potenti per lanciare la letteratura americana.
Qualche esempio. John Steinbeck uno dei più importanti ed imitati autori a stelle e strisce ha trasposto il tema della crisi nelle più diverse forme. Del resto nel 1929 era proprio al suo esordio letterario. Al dio sconosciuto del 1933 è facilmente leggibile proprio come un’allegoria della disperazione indotta dalla Grande depressione. Una famiglia di contadini emigrata sognando una vita felice perseguitata dalla siccità. Tanto che alla fine il capofamiglia arriva a suicidarsi, versando il suo sangue al suolo in onore della «Madre terra» nel tentativo di ottenere il ritorno della pioggia. Ma per altri capolavori come Uomini e topi e Furore non ci sono allegorie da cercare: la lotta per un posto di lavoro irrompe direttamente sulla scena, diventa pagina.
La scrittura di un altro grande, Nelson Algren, è tutta impregnata dell’amaro fiele della sconfitta, del dolore di chi per scrivere deve rubare una macchina da scrivere. Il suo Mai venga il mattino è un coacervo di rabbia e disperazione con sfondo di ghetto polacco in quel di Chicago. Ma il ricordo della crisi, del suo effetto devastante, affiorano anche nelle pagine di molti altri autori come Jon O’Hara o Budd Schulberg che non per niente sarà l’autore di Perché corre Sammy? e lo sceneggiatore di Fronte del porto. Esattamente come anche Non si uccidono così anche i cavalli? di Horace McCoy, scritto nel 1935 e poi portato sullo schermo da Sydney Pollack più di trent’anni dopo, è un romanzo sulla crisi, sulla povertà e sulla caduta. E poco importa se tutto questo tremendo peso è racchiuso nel tremendo gioco al massacro che si recita in una sala da ballo.

Ma il grande crollo del 1929 arriva anche più lontano: persino uno dei geni della fantascienza, Ray Bradbury, ha deciso di ambientare alcuni dei suoi lavori negli anni della crisi che visse da bambino, come il recente Farewell summer. Chissà allora per quanti anni verrà scritta e riscritta la crisi del 2009.

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