In un certo senso, il sacerdote che celebra il funerale del Rinascimento, così come era stato innalzato da Michelangelo, Raffaello, Bramante, Palladio nel Cinquecento, ma con una più ampia gittata che va da Giotto a Tiepolo, è un artista anfibio, difficilmente definibile in una categoria precisa come era stato architetto, scultore e pittore Michelangelo: Giovan Battista Piranesi (1720-78). Difficile anche indicarne la scuola, essendo tanto veneziano quanto romano. Piranesi era antico e moderno, archeologo e avanguardista, studioso di Vitruvio e di Palladio, e architetto visionario.
A vent'anni, incerto sul suo futuro a Venezia, partì per Roma, al seguito del nuovo ambasciatore della Serenissima, Francesco Venier. Fu utile per lui l'insegnamento delle tecniche incisorie, in cui eccelse, nella rinomata bottega calcografica di Giuseppe Vasi. A Roma incrociò anche il suo omologo, nella scultura, come lui veneto, Antonio Corradini, con il quale studiò l'arte barocca a Napoli e il mondo antico negli scavi di Ercolano. Ciò che Piranesi fece con l'antico, soprattutto davanti all'immensità delle «parlanti rovine» di Roma, è analogo a quanto fece, con concorde spirito, per la storia d'Italia, Ludovico Antonio Muratori. Questi uomini sono la coscienza profonda dell'Occidente, e soprattutto della centralità dell'Italia, dal mondo greco fino all'Unità, quando un mondo si dissolve. L'Italia si era costituita con il Rinascimento, e finisce con il Risorgimento. Il primo ad avvertirne il principio di demolizione è Piranesi, che sente la grandezza perduta davanti alle rovine, di cui rielabora, nella sua opera, un infinito museo. Non sono rovine, né reliquie, né reperti archeologici; sono rigenerazioni dall'antico: invenzioni, restauri, rielaborazioni, o anche solo disegni, la cui vocazione di proto-design è confermata dalle riproduzioni moderne, nello stesso spirito, di Adam Lowe.
Questo museo, immaginario e reale insieme, è ricostituito ora in un libro ricco e difficile di Pierluigi Panza, che è risalito dalla professione di giornalista culturale, sempre attento e civilmente responsabile, alla dimensione dello studioso e del filologo, applicandosi a un'opera veramente impegnativa. Piranesi è fisicamente circoscrivibile, ma resta inafferrabile. Vive contemporaneamente nell'antico e nel moderno, non tradendo nessuno dei due tempi, con lo spirito di un uomo del Rinascimento, che li fonde insieme. Il suo modello e alter ego resta Palladio, ma lo supera in uno spazio visionario, popolato da fantasmi che vivono contro qualunque minaccia di archeologia e di reale museificazione. Scrive Panza: «l'inventario di questo libro evidenzia come i pastiches e le decorazioni di Piranesi si ispirino a elementi figurativi presenti nei pezzi da lui trattati come Art-dealer. Quando non provengono da pezzi esistenti, Piranesi riprende elementi iconografici presenti nei repertori (...) i motivi da lui utilizzati non sono quasi mai d'invenzione». La loro circolazione è garantita da libri con incisioni che diffondono il suo repertorio di prodotti d'arredo come Vasi, candelabri, cippi sarcofagi, tripodi, lucerne e ornamenti antichi (1778), commercializzando camini, oggetti decorativi, candelabri, consolles, come Palladio aveva diffuso le sue opere nel mondo, attraverso il terzo dei Quattro libri di architettura del 1570.
Di questi oggetti è ben viva la nostalgia di un mondo commemorato in mirabili incisioni, nei quattro volumi delle Antichità romane, duecentocinquanta tavole, edite nel 1756 dopo le importanti pubblicazioni di Capricci decorativi (1750), di Carceri di invenzione (1760) e di vedute, variamente concepite tra il 1748 e il 1778. L'elezione di un veneziano, papa Clemente XIII, nato Carlo della Torre Rezzonico, nel 1758, favorì Piranesi che, sotto il suo pontificato pubblicò Della magnificenza e architettura dei romani (1761). Con il papato di Clemente XIII si moltiplicarono per l'artista gli incarichi e i riconoscimenti ufficiali. Eletto accademico onorario di San Luca nel 1761, fu inviato dal Papa a verificare i restauri all'interno del Pantheon; due anni dopo venne incaricato di modificare la zona absidale della basilica di San Giovanni in Laterano, edificio già restaurato da Francesco Borromini tra il 1646 e il 1649. Fu mentre si occupava della chiesa lateranense che ricevette la sua commessa architettonica più importante: la trasformazione della piccola chiesa di Santa Maria del Priorato e della piazza antistante, su commissione del cardinale Giovanni Battista Rezzonico, nipote del pontefice. Il cantiere si concluse nell'ottobre 1766 e attribuì a Roma un nuovo tempio caratterizzato da una nobile eleganza classica, squisitamente settecentesca, equilibrata nelle strutture e negli ornati.
Il libro di Panza è un puntuale inventario del museo Piranesi e delle sue invenzioni attraverso l'antico, come le definisce John Wilton-Ely. L'autore rivendica lo «spirito settecentesco» del suo censimento di «marmi antichi o all'antica, integrati, rifatti, collezionati, venduti o anche solo incisi a scopi promozionali dalla bottega Piranesi», individuati a Roma, Napoli, Firenze, Sassari, Parma e in Svezia, Gran Bretagna, Russia, Francia, Germania, Olanda, Polonia, Spagna, Stati Uniti (Los Angeles e Minneapolis). In gran parte provenienti dalle sei stanze di Palazzo Tomati a Roma, dove Piranesi vendeva i pezzi come attività professionale. Quello di Panza è stato un viaggio della memoria, un procedimento a ritroso per i duecentosettanta oggetti schedati, il cui nucleo più vasto è a Stoccolma, nel museo di antichità di Gustavo III, che acquistò i marmi di Piranesi collezionati e integrati dal figlio dell'artista, Francesco. Sono circa centocinquanta pezzi, ora al Nationalmuseum di Stoccolma. Assai significativa anche la collezione di Piranesi del «piranesiano» John Soane, assimilati nella sua casa museo, a Londra.
Allo «spirito settecentesco» di Panza bisogna aggiungere una coscienza contemporanea che muove l'autore, tra Borges e la Yourcenar, che scrisse: «L'autore delle Vedute e delle Antichità Romane non ha certo inventato né il gusto delle rovine, né l'amore per Roma. Un secolo prima di lui, anche Poussin e Claude Lorrain avevano scoperto Roma con occhi nuovi di stranieri; la loro opera si era nutrita di quei luoghi inesauribili. Ma mentre per un Claude Gelée, per un Poussin, Roma era stata soprattutto il mirabile sfondo di una fantasticheria personale o di un discorso di ordine generale, ed un luogo sacro anche, accuratamente purificato da ogni contingenza contemporanea, situato a mezza strada dal divino paese della Favola, è l'Urbe stessa, sotto tutti i suoi aspetti e in tutte le sue implicazioni, dalle più banali alle più insolite, che Piranesi ha fissata ad un certo momento del XVIII secolo, nelle sue migliaia di tavole, insieme aneddotiche e visionarie. Non ha solo esplorato i monumenti antichi da disegnatore che cerchi una prospettiva da riprodurre; ne ha personalmente frugato i ruderi, un po' per reperirvi le antichità di cui faceva commercio, ma soprattutto per penetrare il segreto delle loro fondazioni, per imparare e per dimostrare come vennero costruiti».
Ma
il Rinascimento non muore con Piranesi. Dopo il suo funerale solenne, si rigenera nel Neoclassicismo, e nell'opera olimpica (mai notturna, mai tormentata, mai onirica, com'era stata quella di Piranesi) di Antonio Canova.
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