il dibattito 2

La riflessione sul rapporto tra il centrodestra e la cultura sviluppata ieri su queste colonne da Paolo Guzzanti a margine del premio Campiello affronta questioni importanti, su cui può essere proficuo intervenire. Su alcune affermazioni è difficile non essere d’accordo: sul fatto che gli intellettuali siano in maggioranza «di sinistra» (spesso anche quando sono «di destra»), sul fatto che la cultura sia uno strumento formidabile per qualsiasi regime politico, sul fatto che quel coacervo di persone e gruppi che da vent’anni gravita su Silvio Berlusconi abbia sempre mostrato ben poco interesse per le idee. Si tratta di fatti evidenti. Detto questo, non auspicherei la svolta alla De Gaulle o alla Pompidou voluta da Guzzanti, convinto che se il governo conquistasse il ruolo di difensore delle arti, come hanno sempre fatto i conservatori francesi, avremmo un salto di qualità. Non lo penso: una volta di più la destra farebbe politiche stataliste assai simili a quelle messe in campo dai socialdemocratici. Spendere i soldi dei contribuenti per finanziare il cinema, il teatro o l’opera significa allargare il controllo dello Stato sulla società, distribuire risorse dai poveri ai ricchi, costruire un sistema di lottizzazioni che danneggia la cultura. Invece che guardare a Parigi, in linea di massima conviene trarre ispirazione dall’universo anglosassone, dove il privato ha un po’ più spazio. Su un punto, però, mi trovo in totale accordo con Guzzanti: e cioè sul fatto che la cultura sia cruciale. Un’attenzione forte alle idee serve a capire il mondo. Il disastro dell’Italia e, più in generale, dell’Europa è figlio soprattutto di un ritardo culturale: del fatto, cioè, che siamo prigionieri di schemi e modelli che frenano ogni sviluppo, innovazione, crescita. Quando lasciamo i nostri lidi e scopriamo che vi sono Paesi in cui, al supermercato, è possibile acquistare il «kit» del tassista e all’uscita avviare la professione, al tempo stesso vediamo come la nostra mentalità impedisca quella libertà d’iniziativa che, altrove, favorisce la crescita. Il Vecchio Continente declina soprattutto perché è prigioniero di categorie fallimentari. La cultura serve allora a coltivare il consenso, come avevano inteso pure Mussolini e Togliatti, ma soprattutto a capire un po’ meglio la società e a immaginare istituzioni nuove. Solo così, infatti, possiamo intervenire con coraggio sul presente e non essere sempre in ritardo. C’è poi un’altra questione, ancora più decisiva. In politica, avere idee comporta fare i conti con qualche principio. Chi è socialista ed è favorevole all’ampliarsi della sfera pubblica a scapito di quella privata, quando opera come deputato o come ministro è chiamato ad agire in sintonia con tutto ciò. La posizione liberale è antitetica, ma in qualche modo simile. Un liberale è tale se vuole «meno Stato, più libertà individuale», e se nella sua azione rispetta questo orientamento di fondo. Ecco: uno dei drammi che hanno afflitto e che continuano ad affliggere l’area moderata italiana è che, quasi senza idee, si è ritrovata ad essere quasi senza principi. Ne è derivato un pragmatismo pronto oggi a muoversi in una direzione e domani in un’altra. Non c’è dubbio che si debba saper commisurare i principi e la realtà, evitando ogni estremismo; bisogna infatti sapere in quale contesto ci si trova e, di conseguenza, darsi obiettivi raggiungibili.

Ma il pragmatismo spiccio è una totale assenza di criteri: è un muoversi in qualsiasi direzione, spesso sulla base degli interessi immediati e non al fine di conseguire obiettivi più nobili. Su questo punto, il vuoto culturale del centrodestra è clamoroso: ed è destinato ad avere conseguenze significative anche sul piano elettorale.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica