Parce sepultis. Nella lingua, e ancor più nel pensiero maccheronico di Eugenio Scalfari (un uomo che non si può dire invecchiato male perché non fu migliore né nella giovinezza né nella maturità), probabilmente la formula latina vuole dire «porci i sepolti». Senza pietà e senza pudore, nel pieno disprezzo della Storia e della comprensione delle situazioni che Cossiga si trovò ad affrontare, Scalfari riprende la sua consueta predica e ci racconta, nell’ordine, una serie di balle, sia personali sia storiche. Primo: Cossiga «fu un solitario con pochissimi amici». Falso. Cossiga fu solitario come chiunque pensi, nella concentrazione e nella responsabilità; ed ebbe moltissimi amici, persone che frequentava e che lo ammiravano. Amici autentici, generalmente nemici di Scalfari. Vogliamo ricordare Lino Jannuzzi, Giuliano Ferrara, Joseph Ratzinger, Giuliano Vassalli, Bettino Craxi, Luigi Manconi, Renato Altissimo, Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala, Ludovico Ortona, Giancarlo Elia Valori, Enzo Mosino, Claudio Calza, Paolo Naccarato, Pippo Marra, Barbara Palombelli, Francesco Rutelli? E innumerevoli sardi, fra i quali Ennio Dalmasso, Paolo Savona, Pasquale Chessa, Luigi Zanda, Enrico e Sergio Berlinguer, che gli erano vicini e con i quali intratteneva conversazioni quotidiane?
Secondo: «Fu un sardo integrale». Cosa significa? Solo Scalfari può restringere in una dimensione etnica un carattere e un pensiero estremamente articolati. Berlinguer fu un sardo integrale? O parziale?
Terzo: «Fu un depresso per tutta la vita». Mai visto Cossiga depresso. Certo lo fu, ma di più lo fece credere. In realtà fu piuttosto un uomo fantasioso e razionale. Spesso furente, indignato. E cercò di vedere la realtà senza pregiudizi, dicendo verità che Scalfari non voleva comprendere.
Quarto: «È impossibile ricordare e capire Cossiga se non si ha presente la sua depressione». Falso, Gli italiani lo capirono, e lo ricordano, perché parlava chiaro.
Quinto: «Io l’ho conosciuto bene, gli sono stato amico, e lui a me, per molti anni; direi dal ’78 al ’90». Dunque Scalfari gli fu amico quando taceva, quando si mostrava impassibile e notarile. Ma c’è una contraddizione clamorosa che vedremo al punto settimo.
Sesto: «L’amicizia finì quando lui cominciò a picconare dal Quirinale la Costituzione che aveva giurato di difendere». Insensato. Se è vero che Cossiga non aveva amici, Scalfari chiama amicizia quella che fu conoscenza e frequentazione, ma ne indica la fine proprio nel momento in cui Cossiga manifesta un pensiero libero, non contro la Costituzione che mai tradì, ma contro la corruzione di pensieri e comportamenti della classe politica. La Costituzione non è un dogma, è un abito mentale che risponde a princìpi che la politica aveva tradito. Ma Scalfari finge di non capirlo.
Settimo: «Di solito la tristezza solitaria coincideva con sconfitte politiche. Ne ebbe una particolarmente grave dopo l’uccisione di Moro; un’altra di analoga gravità quando fu minacciato di “impeachment” dal Pci guidato da Berlinguer del quale era un lontano cugino acquisito». Qui Scalfari raggiunge il culmine della confusione, con l’aggravante di non essere depresso. Dunque: l’«impeachment» si chiede per i presidenti della Repubblica. Cossiga divenne presidente nel 1985. Per 5 anni fu irreprensibile e, quindi, fino al 1990, per sua stessa ammissione, Scalfari gli fu amico. Senza dubbio, entro quella data avrebbe dovuto perorare la sua causa presso Berlinguer. Peccato che Berlinguer sia morto nel 1984, prima che Cossiga divenisse presidente, ed è difficile immaginare che abbia chiesto l’«impeachment», come segretario del Pci, dall’aldilà, e benché «lontano cugino acquisito».
Ottavo: è assai stravagante che un giornalista, un uomo di pensiero, oggi un filosofo, come Scalfari scriva una simile bestialità e sostenga la sua teoria della «depressione» o della «tristezza solitaria» di Cossiga facendo riferimento a un episodio impossibile. L’«impeachment» fu minacciato dal Pci, diventato Pds nel 1991, di Occhetto, che Cossiga, con lampante intuizione, definì «zombie coi baffi», come nella sua vicenda politica lo stesso Occhetto non mancò di confermare.
Nono: con questa ricostruzione storica e psicologica, sgangherata e inconcludente, Scalfari, di un uomo che per primo annunciò la fine della Prima Repubblica e la crisi dei partiti e della politica, in una formidabile contraddizione con il suo stesso ruolo nel Palazzo, ma con assoluta lucidità, dice: «La capricciosità depressiva del suo carattere aveva raggiunto un’intensità che rendeva precario e rischioso ogni rapporto. Ma sulla natura del suo male, sulla sua origine e il suo decorso non ho mai saputo se non quello che se ne diceva: che era imbottito di farmaci e non sempre con successo sulle sue condizioni generali di salute». Appare evidente che si tratta di illazioni di carattere diffamatorio, sulla base del «sentito dire» e del pettegolezzo. Lo stesso Scalfari lo ammette, dichiarando: «Non ho mai saputo se non quello che se ne diceva». Strano per un amico che «ai tempi di Berlinguer...»
Decimo: sulla base di queste certezze, ammettendo di non averlo frequentato ma solo diffamato negli anni della sua più dura battaglia, prima di Tangentopoli, contro l’intero establishment democristiano, da De Mita a Galloni, da Andreotti a Scalfaro, da Gava a Pomicino (tutti ammiratissimi da Scalfari...), e contro l’azione eversiva della magistratura, sotto la protezione faziosa del Csm, oggettivamente fuori dai limiti della Costituzione, Scalfari conclude: «Un uomo di grande intelligenza appoggiata tuttavia ad una piattaforma psichica del tutto instabile». Non ho mai conosciuto nessuno più lucido di Cossiga e più stabile nei princìpi costituzionali e nel rispetto dell’equilibrio dei poteri violato, sistematicamente, in nome dell’asserita «questione morale» e sulla base di teoremi catartici, da esponenti dell’ordine giudiziario più autoritari che autorevoli (mi riferisco a magistrati, dichiaratamente di destra e di sinistra, non sopra le parti, come Di Pietro, Caselli, Davigo, Violante, Casson, D’Ambrosio, De Magistris e altri numerosi). Provò a dirlo, poco prima, con conseguenze disastrose, anche Leonardo Sciascia. Ho sempre riscontrato invece la confusione mentale di Scalfari.
Oggi ce ne dà una prova inquietante, proponendo una ricostruzione storica e persino giornalistica sconcertante. Anche dopo la morte di Cossiga, la rabbia lo acceca e lo rende incapace di ragionare, ingeneroso nel riconoscere l’evidenza così come fantasioso nella descrizione dei fatti e della psicologia di un uomo straordinario.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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