Dietro le gaffe, ira e debolezza

Egidio Sterpa

«Se cado, non vado a casa da solo». C’è poco o punto stile, mi pare, in questa frase di Prodi. E anche un po’ di presunzione e tendenza all’intimidazione. Non devo essere il solo a pensarlo se, da quanto leggo sui giornali, due alleati del presidente del Consiglio, uno politico come Fassino, segretario del partito più consistente della coalizione di governo e un filosofo come Cacciari, sindaco di Venezia per conto del centrosinistra, con dichiarazioni di questi giorni ne hanno messo in luce l’indole sospettosa. In due interviste recentissime, De Mita e Andreotti, che certo lo conoscono più di altri, soprattutto De Mita, che lo portò alla presidenza dell’Iri, lo hanno descritto anch’essi diffidente e permaloso.
Lo dico per lealtà verso i lettori: di dedicare un intero articolo a Prodi, addirittura in chiave introspettiva, non mi attrae affatto. Il personaggio, per quel che mi riguarda, merita solo qualche giudizio politico, come ho sempre fatto. Mi ci tirano ora alcune lettere, in una delle quali me lo si chiede quasi categoricamente: «Ma, insomma, perché finalmente lei, liberale dichiarato, non si occupa più a fondo di questo personaggio che a me e a tanti altri italiani appare inadeguato a fare da guida del nostro Paese nel momento storico forse più difficile degli ultimi cinquant’anni?». Testuale. Mi si chiede anche di lasciare anonima la lettera.
Conosco appena Prodi. Mi è capitato sì e no un paio di volte di incontrarlo. Ebbi con lui una telefonata, partita da lui, quando era presidente dell’Iri: mi sollecitò una presa di posizione a favore della privatizzazione della Maccarese. Niente di più. Mi basta e avanza quanto ne hanno scritto due persone che stimo: il grande politologo liberale Nicola Matteucci, che lo ha avuto collega all’Università di Bologna e, proprio ieri, in un editoriale di questo giornale l’amico Massimo Teodori. Avrei poco da aggiungere, se non affidarmi a giudizi intuitivi.
Matteucci ne scrisse qualche anno fa, sempre su questo giornale, e ne veniva un ritratto di personaggio non simpatico. Un amico parlamentare, col quale ne discussi in quell’occasione, concluse: «C’è da aspettarsi che Prodi reagisca». Inutile attesa, però. Perché? Noncuranza, indifferenza, disagio? A conferma di quello scritto c’erano, e ci sono, l’autorevolezza, il valore morale e lo spessore intellettuale di Matteucci. È appena il caso di ricordare che Matteucci è stato tra gli animatori del «Mulino», fucina e cenacolo di tante intelligenze. Perché, dunque, il silenzio? Non era facile misurarsi con un intellettuale di quel livello? Imbarazzo perché il grande studioso - i suoi studi su Tocqueville e sul liberalismo sono esemplari - citava testimonianze come quella di Beniamino Andreatta, economista e politico, al quale Prodi deve forse la salita in cattedra?
Ma andiamo oltre. Quel che mi ha colpito ultimamente sono le gaffe del nostro presidente del Consiglio, come il dar del matto a chi pretendeva che si presentasse in Parlamento a riferire sul caso Telecom, e quella strana risposta a un giornalista che gli chiedeva un parere sulla sicurezza del Papa nell’eventualità di una visita in Turchia. Più che una gaffe, la prima è stata dimostrazione di disprezzo per il Parlamento. Nella seconda, in verità, non ci vedo una voluta offesa al Papa, Prodi è cattolico, piuttosto invece un segno di incapacità di riflessione e di autocontrollo, difetto notevole per un politico con tanta responsabilità.
Il resto - la pretesa di considerare superato l’embargo delle armi alla Cina, il sostanziale disinteresse per la mancanza di libertà in quel Paese; infine la ostentata comprensione per un dissennato personaggio come Ahmadinejad - va catalogato tra gli errori politici colossali, che fanno davvero pensare ch’egli, come ha scritto il caustico Giampaolo Pansa, che la sua irrefrenabile ascesa al potere sia dovuta più al «fattore C» che ad altri meriti. Non meno indicativi sono gli aggettivi a cui hanno fatto ricorso taluni commentatori nel giudicare l’attuale governo: il «desolante» di Montezemolo, che pure pareva apprezzarlo, e l’«avvilente» di altri, espressioni che marcano la debolezza di un personaggio facile alla stizza, inutilmente condita con un artefatto sorriso tutt’altro che gioviale.


E de hoc satis, esigente e incredulo lettore.

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