da Milano
Aveva resistito in carcere. Aveva resistito agli arresti domiciliari. «Ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede», faceva sapere ai suoi ex superiori nelle prime interviste dopo il ritorno in libertà. Per capire perché proprio ora Giuliano Tavaroli si bruci i ponti alle spalle, offrendo al tritacarne dei mass media vecchi amici e vecchi nemici, colleghi e superiori, potenti ed ex potenti, bisogna scendere trecento chilometri a sud. Lasciare un tribunale, quello di Milano, ed infilarsi in un altro. Tribunale di Firenze, sezione civile. È da qui che, un mese fa, all’ex capo della sicurezza di Telecom è arrivato il messaggio che non si aspettava. Da quel momento Tavaroli si è convinto, a torto o a ragione, di essere stato scaricato. Ha avuto la sensazione precisa che i suoi silenzi, il suo eroismo alla Greganti, fossero stati ripagati nel modo peggiore.
Solo Tavaroli sa se la sua reazione sia stata dettata più dalla pancia o dal cervello, se sia figlia di un disegno preciso o di una furibonda incavolatura. Di certo c’è che tutto, o quasi, inizia con quella carta arrivata da Firenze. Sarà in novembre a Firenze – ben prima che la gigantesca macchina del processo milanese si avvii – che si giocherà una parte decisiva della partita Telecom. In ballo non ci sono anni di galera, più o meno virtuali, ma soldi. Una montagna di soldi. Venti milioni di euro. Pochi per Telecom. Una montagna che può stritolare Tavaroli.
Accade questo. Emanuele Cipriani, l’amico d’infanzia di Tavaroli divenuto investigatore privato, anche lui arrestato e scarcerato, fa causa a Telecom e Pirelli per ottenere il pagamento di una parte dei soldi che ritiene gli spettino per i servizi forniti alle aziende di Marco Tronchetti Provera. Il ricorso viene depositato a Firenze perché è lì che abita Cipriani. Telecom avrebbe diversi modi per reagire. Sceglie il più brusco. Si costituisce in giudizio, non solo si rifiuta di dare a Cipriani quel che pretende ma gli chiede di restituire quanto gli ha pagato nonché i danni morali e materiali. Totale, oltre venti milioni di euro. Per giustificare la richiesta, Telecom si rifà testualmente all’ordine di cattura contro Cipriani e Tavaroli, accusati di appropriazione indebita ai danni dell’azienda: le indagini commissionate nel corso degli anni da Tavaroli a Cipriani sarebbero indagini inesistenti, inventate soltanto per succhiare soldi all’azienda.
È la tesi della Procura, che Tavaroli ha sempre respinto. Erano indagini vere commissionate ed eseguite nell’interesse di Telecom, ha sempre detto. A Milano l’azienda formalmente non si è sbilanciata, non si è costituita parte civile contro l’ex dirigente, ha sostenuto le sue spese legali. Invece davanti al tribunale di Firenze, a sorpresa, Telecom sposa in pieno le tesi dei pm milanesi. A colpire Tavaroli, quando legge il documento, è soprattutto la durezza dei toni. Chiede spiegazioni. Non le ottiene.
Un mese fa, il secondo passaggio della faccenda. Il detective Cipriani reagisce alla richiesta di danni notificatagli da Telecom e Pirelli facendo causa al suo ex amico Tavaroli. «Poiché sei stato tu a ordinarmi le indagini – gli scrive in sostanza – e visto che Telecom dice di non saperne niente, sei tu a doverne rispondere insieme a me davanti a Telecom». Per Tavaroli è una doccia fredda. Perché venti milioni sono tanti. E perché venire liquidato dalla sua azienda come un ladro è più di quanto sia disposto a sopportare.
Non si aspettava che Tronchetti Provera finisse a processo insieme a lui, e anzi ha fatto il possibile per evitarlo.
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