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Dietrofront dei giudici: ritorna in carcere l’assassino di Soverato

RomaMa che ne sa lui, Giuseppe Bellorofonte, del perché il killer della sua bambina Barbara è tornato in cella? Dice soltanto che «è giusto, i magistrati hanno fatto ciò che dovevano fare. Una persona che uccide deve restare in carcere e pagare il suo debito con la giustizia».
Non si infila nella matassa ingarbugliata fatta di codicilli, ritardi, disposizioni di legge, gip, gup, fascicoli e Guardasigilli. A lui interessa soltanto che sia giusto così, che ai polsi di Luigi Campise i carabinieri abbiano rimesso le manette: questura e poi gattabuia. Chisseneimporta se è uscito per via di quell’altro processo che incombe sulla testa dell’omicida di sua figlia; chisseneimporta se nel riportarlo dentro è stata determinante quella lettera inviata al Corriere della Sera in cui si chiedeva «Ma che giustizia è questa?»; chisseneimporta se è avvenuto tutto grazie al ministro della Giustizia Angelino Alfano che, interessato al caso, ha mandato i suoi ispettori al tribunale di Catanzaro per vederci chiaro.
In fondo lui, Giuseppe, vuole soltanto sapere di vivere in un Paese in cui se uno spara alla testa di un altro e si becca trent’anni di reclusione, poi non scorrazzi indisturbato come se nulla fosse. Giuseppe vuole soltanto che Campise, 26enne di Catanzaro, ex fidanzato di sua figlia, paghi per quello che ha fatto. Campise gli ha portato via Barbara una sera di febbraio del 2007: l’ha chiamata al citofono, l’ha fatta scendere in strada e le ha sparato alla testa. Reo confesso: era troppo geloso. La condanna era arrivata nel dicembre 2008: trent’anni.
Peccato che già da fine luglio il ragazzotto gironzolava tranquillo per il paese di Soverato. Un po’ dentro un po’ fuori, a dir la verità. Il giovane bazzicava la galera anche per questioni di estorsioni, spaccio di droga e rapine. Poi però vederselo lì, a due passi dal luogo del delitto, libero come un fringuello nonostante gli avesse ammazzato la figlia, beh, troppo. La lettera al Corsera con quel «da padre, da cittadino, da uomo, mi chiedo se è giusto tutto questo» e poi l’intervento del Guardasigilli Alfano, deciso a inviare i suoi 007 per vederci chiaro su quella «scarcerazione per decorrenza dei termini di custodia cautelare». Una vicenda paradossale, dove l’applicazione pedissequa del codice può fare a cazzotti con il più elementare senso della giustizia. I magistrati calabresi ripetono a macchinetta di aver sempre e solo «applicato la legge». Quella stessa legge che apre e chiude l’uscio di una cella manco fossero le porte girevoli di hotel.
Campise, quindi, ieri è tornato dentro per la decisione del gip Antonio Giglio che ha accolto la richiesta dell’accusa: «Pericolo di fuga». Ma allora perché era fuori? Perché lo stesso Campise, detenuto per spaccio ed estorsione, s’era beccato quattro anni e quattro mesi di reclusione. Ma attenzione: tre anni condonati per via dell’indulto, tre mesi abbuonati per buona condotta, e il risultato è aria aperta.
Sul filone dell’omicidio, invece, le lungaggini delle perizie, la mancata richiesta di una nuova misura cautelare, il vedere Campise in ceppi per altri grattacapi giudiziari ha fatto il resto. L’ingranaggio del tribunale ha giocato a favore dell’imputato che è ritornato a casa. Libero. Poi, s’è corso ai ripari: poche ore dopo la scarcerazione il pm ha chiesto il ripristino della custodia cautelare in carcere. Gip in ferie e fascicolo sul tavolo del suo sostituto, Antonio Giglio. E per Campise altro giro in carcere: «pericolo di fuga», «enorme gravità del fatto», «entità della pena inflitta», «personalità, abitudini e frequentazioni dell’imputato, sintomatiche della contiguità con ambienti delinquenziali», «comportamento processuale tenuto dall’imputato», sono le motivazioni per cui l’uomo deve tornare dietro le sbarre.
I legali della famiglia di Barbara esultano: «Anche se bisogna domandarsi se è concepibile e serio che un processo in Italia duri così tanto - mastica amaro l’avvocato Enzo De Caro - bisogna rendersi conto che ormai la macchina della giustizia rischia seriamente di incepparsi». L’assassino questa volta pare proprio demoralizzato e si sparge il capo di cenere: «Non sarò sereno con me stesso sino a quando non pagherò per quello che ho fatto», dice. Mentre il suo avvocato Salvatore Staiano mostra i muscoli: «È una decisione che mi stupisce. Rispetto l’ufficio gip di Catanzaro, ma non vorrei dover accertare, leggendo il provvedimento, che il gossip mediatico e le ispezioni ministeriali abbiano avuto, sia pure inconsapevolmente, un peso sulla decisione».
E intanto scoppia la bufera sul senatore Maurizio Gasparri secondo cui l’annuncio del Guardasigilli di inviare gli ispettori ministeriali «è stato determinante per porre fine a questo sconcio. Il governo supplisce allo scarso senso di responsabilità di magistrati che rimettono in libertà degli assassini».

Una critica che manda su tutte le furie l’Anm che spara a zero: «Affermazioni qualunquiste che ripropongono il tema del garantismo a corrente alternata».

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