La difesa: «Rosa e Olindo non erano sul luogo del massacro»

Milano«Olindo e Rosa sono due ingenuotti che sono stati dipinti come lupi». Ci vuole questa frase del loro avvocato Fabio Schembri perchè Olindo Romano e Rosa Bazzi si scuotano dallo stato quasi catatonico in cui - senza parlarsi, senza guardarsi intorno, senza mutare posa - hanno seguito dall’inizio il processo d’appello a loro carico. Non avevano alzato gli occhi neanche quando - era la seconda udienza - sullo schermo erano passate le immagini dello scempio del piccolo Youssef, la più piccola e innocente delle loro quattro vittime, o quando in aula risuonava la registrazione della confessione di Rosa: «Con la destra gli ho tenuto la testa e con la sinistra gli ho tagliato la gola».
Ma ora è il turno delle difese, e i coniugi Romano si scuotono dal torpore. Sanno che in queste poche ore si giocano le loro flebili speranze di scampare alla conferma della condanna all’ergastolo. Perché Schembri ricapitola - e lo fa, va detto, con chiarezza e apparentemente con convinzione - le presunte incongruenze dell’inchiesta: «Vi racconterò» dice ai giurati «una storia di indagini malfatte, di verbali rinnegati o tenuti nei cassetti, di testimoni dileggiati ed offesi». Ed eccoli gli elementi che non quadrano, secondo Schembri: Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto, che nel primo interrogatorio dice che il suo aggressore aveva la «pelle olivastra e i capelli neri sul volto», e solo in seguito accusa Olindo; lo spacciatore di droga Ben Brahim Chemcoum che dice di aver visto uscire dalla casa della strage uno dei fratelli di Raffaella Castagna - la madre di Youssef - insieme a uno sconosciuto dalla «pelle olivastra»; il vicino del piano di sotto, un siriano che dice di avere sentito dei passi nell’appartamento di Raffaella e Youssef alle 18,30 di quel lunedì sera, quando - secondo la ricostruzione ufficiale - l’appartamento doveva essere vuoto. E poi l’argomento da sempre più sventolato dai difensori: l’assenza di tracce, di impronte, di Dna di Olindo e Rosa nella casa del mattatoio.
Schembri sa che su tutti questi tasselli fuori posto incombe il peso della prova più schiacciante di tutte, quella confessione che Olindo e Rosa hanno prima messo a verbale e poi recitato davanti alle telecamere del loro stesso consulente psichiatrico. Insomma, la confessione sta lì, al centro dell’aula, con la massiccia potenza di un menhir difficile da scalfire. Il legale cita il precedente dello stupro alla Garbatella, a Roma, dove l’esame del Dna smentì riconoscimenti e confessioni: ma sa anche lui che il paragone non regge, perché qui di Dna non c’è traccia. E così porta la sua arringa verso l’unica destinazione ragionevole, verso il punto su cui si giocherà tutto questo processo. Un punto che si riassume in una domanda semplice: Olindo e Rosa sono matti?
«Psicosi cronica», «disturbo delirante», questi i mali di cui soffrirebbero. E ieri Schembri torna a lanciare alla Corte un appello perché si vada a scavare negli abissi delle loro menti. Legge un rapporto del direttore del carcere di Olindo che parla di «comportamenti atipici di Romano che vorrebbe una cella da dividere con la moglie», sostiene che è in atto una «degenerazione delle dinamiche relazionali». «Eppure la sentenza di primo grado dice che non ci sono dubbi sulle loro condizioni mentali!», protesta Schembri.
Perizia psichiatrica? Il nodo verrà sciolto dalla corte alla fine del processo, nella camera di consiglio decisiva.

E sarà un nodo cruciale, perché più va avanti questo processo e più si capisce che solo facendosi riconoscere folli i coniugi Romano possono seriamente sperare di schivare il carcere a vita. E sognare di ritornare un giorno a fare l’unica cosa che sembra importargli davvero: starsene loro due, da soli, lontano dal mondo, a guardare fissi nel vuoto delle loro coscienze.

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