Cultura e Spettacoli

Dimmi ciò che lasci e ti dirò chi sei

Da Garibaldi a Pirandello passando per Manzoni. La grandezza si misura (anche) dalle ultime volontà. Cavour fece il laico per tutta la vita poi chiese di avere cento messe in suffragio

Dimmi ciò che lasci e ti dirò chi sei

Se credessimo alla buona fede degli uomini, esisterebbero luoghi in cui essere sinceri è d’obbligo. Basta però una spruzzata di scettico realismo e di disincanto per convincerci di quanto l’autenticità sia merce rara. Alcuni si fidano della pagina scritta, del racconto di se stessi; eppure, che lo si voglia o no, è impossibile evitare una dose, piccola o grande, di mistificazione: l’autobiografia è pur sempre letteratura. Anche se con le migliori intenzioni, è in ogni caso fiction. Ci sono poi i confessionali e i lettini degli psicanalisti, ma la tentazione della menzogna non viene meno neanche davanti al prete e all’analista. A ben pensarci, rimane un solo mezzo a cui abbandonare senza trucchi noi stessi e le nostre verità: il testamento. Cioè lo specchio più autentico di una personalità.

Dimmi quello che lasci (e come lo lasci) e ti dirò chi sei. Un assioma che vale anche e soprattutto per i potenti e gli uomini illustri: un testamento redatto in prossimità della morte rivela spesso ciò che la diplomazia, l’ipocrisia e le convenzioni sociali tacciono. Curioso e interessante è perciò il libro di Salvatore De Matteis, una raccolta delle ultime volontà dei protagonisti della vita italiana politica, culturale e religiosa tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento (Così deciso, così sia, Aliberti, pagg. 380, euro 17,50). Una vera galleria di personaggi che mettono a nudo in extremis la propria filosofia di vita, le proprie debolezze e, in qualche caso, certe fisime inconfessate.

Si scopre, ad esempio, l’improvviso zelo religioso di Camillo Benso conte di Cavour che, pur credente non impeccabile in vita, raccomanda all’erede la celebrazione di cento messe «in suffragio della sua anima». Ad altri, apparire ciò che non si è riesce più difficile e i nodi (leggasi i pettegolezzi) vengono al pettine. Non aveva fama di prodigo Alessandro Manzoni, il quale dopo aver accompagnato quasi tutti i figli alla tomba, destina al fedele servitore poco più che le briciole, giustificate (excusatio non petita) dalla «ristrettezza» del proprio patrimonio. Diverso fu il contegno di Giuseppe Verdi: non si accontentò di lasciare le sue immense sostanze a ospedali, istituti e asili per l’infanzia, ma stabilì di distribuire ai poveri del villaggio di Sant’Agata il giorno successivo alla sua morte la bellezza di mille lire.
Il testamento inoltre può essere lo strumento più utile per ottenere il perdono. A esso si affida la speranza di un felice approdo al Paradiso, specie quando si ha qualcosa di cui ci si vergogna davanti a Dio. Il poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli aveva sulla coscienza i propri versi segreti licenziosi e disincantati e predispose a mo’ di purificazione funerali poverissimi. Ad Antonio Fogazzaro, invece, la Chiesa aveva riservato la condanna dell’Indice: davvero troppo per un cattolico dichiarato, a cui non bastarono gli atti di pubblica obbedienza. Quattro anni prima di morire, non poté fare a meno di consegnare alla carta la propria tormentata verità: «Perdono a tutti coloro che per le mie opinioni religiose mi hanno, da opposte parti, detto ingiuria. Mi abbandono pregando e sperando alle braccia del Padre che sa le mie vere colpe e il mio dolore».

Di contro, alla religione e ai suoi ministri Giuseppe Garibaldi mandava pensieri non proprio affettuosi: alla larga i preti dal suo corpo, ammoniva in un testamento politico pubblico, nel quale «in piena ragione» dichiarava solennemente di non volere accettare «il ministero odioso, disprezzante e scellerato d’un prete che considero atroce nemico del genere umano e dell’Italia in particolare». Questa volontà fu rispettata; ad altre, però, non si rispose «obbedisco»... L’ultima, in particolare, fu infranta tra lo sdegno di un altro giacobino miscredente poi però destinato a pentirsi, Giosue Carducci. L’eroe dei due mondi, infatti, aveva chiesto la cremazione e invece il suo corpo fu addirittura imbalsamato.

Fu invece cremato Luigi Pirandello, che mise a punto clausole... «pirandelliane» come le sue opere: «Morto, non mi si vesta. Mi s’avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul letto e nessun cero acceso». E poi, con buona pace del fascismo che intendeva apparecchiargli un funerale di Stato: «Carro d’infima classe, quello dei poveri. E nessuno m’accompagni, né parenti né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta».

Due anni dopo, nel 1938, sarà la volta della pubblicazione di un altro testamento eccellente. Contiene indicazioni opposte a quelle date da Pirandello. In effetti, lo scrive il suo opposto, nella letteratura come nella vita, Gabriele d’Annunzio. Il quale ordina di eseguire tutto «in armonia con quanto fu da me voluto in accordo col mio Grande Fratello e compagno nel creare la Fondazione del Vittoriale degli italiani». Il Grande Fratello è il Duce e (l’ennesima beffa del Vate?) poco male che tra i due non siano proprio rose e fiori. «Tutto - ecco l’estrema raccomandazione - dev’essere raccolto e custodito e vivere nel Vittoriale degli Italiani». «Vivere», sottolineato non a caso, anche senza il corpo: la morte, come la vita, deve essere un’opera d’arte.

Niente a che vedere con chi invece affida alle ultime volontà il desiderio di un oblio silenzioso, come a riscattare una celebrità non cercata. In questi casi, il testamento è, più che un’eredità, un sigillo di sobrietà. Sempre che non ci si metta il sapido spirito dell’italico sarcasmo, come accadde al povero Quintino Sella, il ministro delle finanze della Destra storica famoso per le sue tasse, il quale, dopo aver espresso il desiderio di «essere seppellito senza alcuna specie di pompa more pauperum», fu subito sbeffeggiato da quest’epigramma: «Attenzione, o pellegrino / A quest’urna non ti accosta...

/ Se si sveglia l’inquilino / Paghi subito un’imposta!».

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