da Roma
È un tandem collaudato, quello di Dino e Aurelio De Laurentiis, zio e nipote aggressivi, quando si tratta dimporre il brand di famiglia sul mercato italiano, secondo loro afflitto dalla cosiddetta «cinematografia della mutua», quel cinema sovvenzionato dai fondi pubblici, ma poco apprezzato dal pubblico in sala. Spalleggiati dal co-producer arabo Tarak Ben Ammar, nipote di Habib Bourghiba, primo Presidente della Tunisia, i due menano fendenti. Obiettivo: il cinema italiano. Imbalsamato da una politica iperprotezionista, la stessa (targata Prc) che ha proposto il contingentamento, per legge, dei film Usa. «Quando producevo i film di Rossellini, il cinema italiano esportava cultura, arte. E adesso? Dopo la legge Corona, imposta nel 1965 dal solito comunista di turno, per obbligare i produttori a far lavorare le maestranze italiane, ho lasciato lItalia. Negli Usa posso impiegare chi mi pare, coinvolgendo un regista americano, un fotografo italiano, un attore francese», sinfervora Dino, lamentando la mancanza di veri produttori, nel Belpaese. «In Italia, i miei colleghi si rivolgono alla tivù: schermo piccolo, piccole storie! E film provinciali, che simpongono solo qui», afferma il cineasta che negli anni Sessanta firmò kolossal come Il Gattopardo e La Bibbia. Inventore delle prevendite allestero e della vendita dei diritti territorio per territorio, Dino lavora a un remake sexy di Barbarella (di Roger Vadim) e presto lancerà The Last Legion (con star del calibro di Colin Firth e Ben Kingsley) e Virgin Territory, commedia dal «Decamerone» di Boccaccio.
Più sanguigno di Dino, che ha lavorato con registi prestigiosi come Pollock, Forman, Lumet, Monicelli, Bergman, Altman, Visconti, Fellini, il nipote Aurelio spara ad alzo zero. Contro i nostri politici: «Hanno distrutto il Paese, mandando ancora in giro il mito della commedia allitaliana, costruito su quella Pompei che è il nostro cinema».
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