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Dipinge (e guida) senza le mani, per non dipendere dallo Stato

Bruno Carati, tetraplegico dalla nascita, si recò in pellegrinaggio a Loreto: "Non chiesi alla Madonna di guarirmi, ma di farmi diventare un bravo pittore"

Dipinge (e guida) senza le mani, 
per non dipendere dallo Stato

La prossima volta, prima di aprir bocca, pensateci bene. È facile parlare. Ma fare è tutta un’altra cosa, quando si ha a disposizione soltanto la bocca. Io ci ho provato, ieri sera a tavola, a dividere a metà una pera, a pelarla con cura e a tagliarla a fettine, senza mani, tenendo un coltello fra i denti, come avevo visto fare poche ore prima a Bruno Carati con un’abilità e una rapidità tali da lasciarmi senza parole: non sono arrivato neppure a scalfire la buccia.
Allora ho deciso che la prossima volta, prima di lamentarmi a voce alta per le avversità della vita, penserò a questo tetraplegico di 68 anni, totalmente privo dell’uso delle mani, che da quasi mezzo secolo ha rinunciato alla pensione di Stato spettante agli invalidi civili totali (256,67 euro al mese) per l’orgoglio di mantenere da solo la famiglia. Potendo contare unicamente sulla propria bocca.
Pur scosso in continuazione dall’irrefrenabile tremore della paralisi spastica, conseguenza dell’abnorme aumento del tono muscolare provocato dalle lesioni dei centri motori cerebrali, Carati sa cavarsela benissimo in mille lavori di alta precisione. Gli basta serrare l’utensile giusto fra i denti: con un pennello dipinge quadri, ceramiche e tessuti; con una forchetta crea sculture; con un bastoncino di legno da 25 centimetri scrive al computer, così come fino a ieri batteva a macchina sulla Olivetti Lettera 32; con un compasso disegna circonferenze perfette; con uno scatto flessibile fotografa; con un cacciavite avvita; con un paio di forbici sagoma i modelli di cartone sui quali spalma il Das per trasformarli in lampadari, specchiere, portafiori, portaombrelli oppure in reggicornette e reggirasoi che gli servono per telefonare e farsi la barba. Infine con le forbicine da manicure taglia le unghie alla moglie che non può riuscirci da sola.
Già, perché Carati, originario di Milano, è sposato dal 1972 con Angela Fermi, 67 anni, nata a Gerola Alta, in Valtellina, a sua volta invalida a causa di una poliomielite infantile che le ha tolto l’uso del braccio destro. In chiesa, davanti al prete, usò la bocca anche per infilarle l’anello al dito. La coppia abita a Castelseprio, nel Varesotto, e ha un figlio, Manuel, 37 anni, tecnico informatico, studente fuoricorso di ingegneria elettronica, che s’è sposato nel 2007 ed è andato a vivere a Gallarate. Per cui non è difficile decifrare il titolo dello spettacolo a loro dedicato, Tre con una mano sola, che la compagnia teatrale Itineraria sta portando con successo in giro per l’Italia: alla nascita di Manuel, e per tutta la prima infanzia, questa famiglia poté contare soltanto sulla mano sinistra di Angela. Il che rende davvero insondabile il mistero di due anziani coniugi che ancor oggi riescono ad accoglierti sereni e sorridenti in una villetta dove la filodiffusione rallegra tutte le stanze e la fontana zampillante nel giardino, al centro del curatissimo prato all’inglese, appare come la rappresentazione perfetta dello slancio vitale bergsoniano.
«Da che mondo è mondo», spiega la voce narrante appena scende il buio in sala, «il teatro racconta storie inventate che sembrano vere. Noi questa sera raccontiamo una storia vera che pare inventata». L’aspetto più incredibile di questa storia è che Carati raggiunge da solo e a proprie spese le sedi delle recite - Milano, Livigno, Macugnaga, perfino Santa Cesarea, all’estremità dello Stivale - guidando una Opel Astra col cambio automatico, che s’è fatto costruire su misura e che ha una specie di manubrio per bicicletta al posto del volante. La moglie gl’infila la mano sinistra nell’impugnatura a forcella che serve per sterzare, gli blocca i piedi in due staffe saldate ai pedali dell’acceleratore e del freno e via! Governando tutto - marce, indicatori di direzione, luci, clacson, tergicristalli, climatizzatore, autoradio - col solito bastoncino di legno serrato fra i denti, munito per precauzione di un laccetto nel caso dovesse sfuggirgli di bocca. I comandi sono raggruppati in una pulsantiera collocata al posto dell’aletta parasole. Non manca un computer palmare col navigatore.
L’auto ha la targa del Canton Ticino, TI 84325, perché quando Carati, trent’anni fa, si presentò alla Motorizzazione civile di Varese chiedendo d’essere ammesso agli esami per la patente, si sentì rispondere: «Vuol guidare l’auto con la bacchetta magica? È matto?». Ma lui nel 1997 ha superato anche quest’ostacolo, prendendosi il domicilio a Stabio, nel distretto di Mendrisio, in modo da poter conseguire la patente in Svizzera. Da allora ha già percorso 150.000 chilometri con la prima auto, una Opel Corsa, e altri 50.000 con la seconda, una Opel Astra. Mai un incidente.
Ecco spiegato anche l’altro titolo, Una vita a modo mio, che l’artista ha voluto dare a un documentario di 20 minuti sulla propria avventura umana e professionale. S’è l’è addirittura montato da solo al computer con un programma di video editing, Studio Plus, nel quale riesce a districarsi meglio di un grafico, manovrando il mouse col mento e trascinando i file con le labbra, così come ieri, col solo ausilio della lingua, riusciva a infilare nella vecchia Rolleiflex i rullini delle pellicole 6x6. È la stessa sbalorditiva precisione che gli ha consentito di cimentarsi persino nella vetrocromia: puzzle di centinaia di tesserine, come nelle vetrate a piombo, che formano dipinti trasparenti, ogni celletta un colore diverso, e se la paresi spastica si traduce talvolta in una sbavatura, niente paura, corregge da solo con un cotton fioc.
Carati va a presentare Una vita a modo mio nelle scuole, perché vuole insegnare ai giovani che non esiste guerra d’indipendenza contro il destino che l’uomo non sia in grado di vincere. E sì, se non fosse per quegli spasmi che a tratti gli impacciano le esse e lo rendono leggermente balbuziente, lui, più che Frank Sinatra, avrebbe meritato di cantare in palcoscenico My way.
Da quanto tempo è in sedia a rotelle?
«Non ho mai camminato. Colpa del forcipe che usarono in ospedale per farmi nascere».
I suoi ebbero un risarcimento?
«Un povero materassaio e una casalinga nella Milano del tempo di guerra? Ma si figuri!».
A che età s’accorse di non essere come gli altri bambini?
«Fu un automatismo. Cominciai da subito a mangiare come i cagnolini, cioè nel modo in cui mi nutro ancor oggi quando sono in casa, mentre al ristorante m’imboccano. Di quel periodo m’è rimasta la voglia di giocare a pallone. Ricordo che la mamma mi faceva appoggiare i miei piedi sui suoi e poi, sorreggendomi per le ascelle, percorreva il più velocemente possibile qualche breve tratto di strada, per darmi l’illusione di poter correre come tutti gli altri bambini. Imparai a giocare a boccette tenendo fra le labbra il mestolo della polenta. Da allora mi sono consumato i denti, a furia di stringerli. Quando dipingo, uso un bite protettivo».
Che scuole ha frequentato?
«Sono arrivato fino alla terza media. Alle elementari non mi volevano. Una maestra in pensione mi preparò privatamente: prima, seconda e terza in due anni. I più duri della mia vita. Poi sono stato nella scuola speciale Gaetano Negri, in via Sant’Erlembaldo, fino ai 15 anni. Ho studiato storia dell’arte e tedesco per conto mio».
Andava bene negli studi?
«Sì, se non fosse stato per i temi. Il foglio protocollo era troppo lungo per cominciare a scrivere dall’alto con la penna tenuta fra i denti. Mi toccava partire da metà scrivendo a rovescio, da destra verso a sinistra, e poi rivoltarlo e continuare normalmente fino a riempire l’altra metà».
Com’era trattato dai suoi compagni?
«Benissimo. Ero l’unico a scrivere con la bocca, gli altri potevano usare le mani. Perciò mi raccoglievano le cose da terra, mi soffiavano il naso. In quell’istituto conobbi Angela, di nome e di fatto: il mio angelo custode. Quando i bidelli mi caricavano di peso sullo scuolabus, era lei a raddrizzarmi le gambe. La rividi molti anni dopo. La portai in gita a Celle Ligure e le chiesi di sposarmi». (Interviene la moglie: «Nessuno dei nostri parenti era d’accordo. Dicevano che da soli non avremmo mai potuto farcela. Mia suocera era una santa donna, ma gelosissima di Bruno. Purtroppo questo scemotto è figlio unico. Dopo 32 anni che lo accudiva, la madre si sentì derubata, fu come portarle via lo scopo della sua vita. Per sei mesi si rifiutò di venirci a trovare»).
In che modo ha imparato a dipingere paesaggi e fiori?
«Fu un miracolo che mi accadde a 17 anni, al santuario di Loreto. C’ero andato con un pellegrinaggio dell’Unitalsi, accompagnato da mio padre. Anziché chiedere alla Madonna la grazia di guarirmi, la supplicai d’aiutarmi a diventare un bravo pittore, visto che da un paio d’anni avevo imparacchiato a tenere i pennelli fra i denti. E come fu come non fu, all’uscita dalla Santa Casa si presentò a noi un signore. Era un commendatore di Milano, direttore di banca: Jacopo Gazzini. Spiegò a mio padre che nel Liechtenstein era appena stata costituita la Vdmfk, cioè l’Associazione internazionale degli artisti che dipingono con la bocca o con il piede. Da allora è la Vdmfk, che espone le mie opere in tutto il mondo e le commercializza sotto forma di calendari o di biglietti d’auguri, a passarmi tutti i mesi lo stipendio fisso che mi ha consentito di mantenere la famiglia senza dipendere dallo Stato».
Nel Paese dei falsi invalidi, forse il vero miracolo è questo.
«I rapporti col mio Amico di lassù devono essere molto buoni. Prima di partire con l’auto, gli dico sempre: dammi una mano Tu, mi raccomando». (La moglie ha una sua teoria: «Secondo me, appena usciamo dal garage, Lui guarda solo noi»).
Costano tanto i suoi quadri?
«Dai 300 euro ai 2.000 delle tele più grandi».
Perché tanti altri nelle sue stesse condizioni non riescono a rendersi indipendenti come ha fatto lei?
«Per mancanza di volontà e di amor proprio. Solo per quello. Io non lo faccio per sembrare come gli altri, so benissimo di non esserlo. Lo faccio perché mi piace risolvermi i problemi da solo. Quando in Italia mi rifiutarono la patente, ci feci una mezza malattia. Poi un mio amico avvocato mi informò che nelle leggi dell’Unione europea vi era uno specifico articolo che contemplava lo sterzo ad asta, anziché a volante. Così, nel giro di 15 giorni, diedi l’esame di teoria a Chiasso. Severissimo. Per la pratica mi presentai a Bellinzona. Rimasero stupiti dai miei tempi di reazione: non sapevano che negli spastici sono superiori alla norma».
Per avere un’auto speciale tutta sua come ha fatto?
«Me la sono disegnata e sono andato a farmela costruire alla Sb di Vigliano Biellese, un’officina specializzata in modifiche di guida per disabili. All’impianto elettrico ha provveduto mio figlio. I pulsanti del quadro comandi li ha presi da un Mig».
E dove ha trovato un aereo da caccia sovietico in disarmo?
«Non lo saprò mai neppure io. Non ha voluto dirlo a nessuno. Ha cercato accessori che non si guastassero. Mi ha detto: “Papà, non posso aggiungere un problema ai tanti che hai già, neppure per sbaglio”. Prim’ancora m’ero fatto costruire la tricicletta, tre ruote e stesso tipo di manubrio, con un poggiatesta che spinto all’indietro funge da freno. Adesso sono molto tentato dal farmi modificare una Mercedes coupé».
Ma non ha paura di distrarsi dalla guida mentre agisce sui comandi con la bacchetta?
«Questo è quello che temono tutti. Non sapete che esiste la coda dell’occhio?».
La polizia stradale l’ha mai fermata?
«Una decina di volte. In Svizzera gli agenti cantonali non fanno una piega. In Italia, appena aperto l’abitacolo, i carabinieri vanno in confusione, non sanno più che cosa controllare. All’uscita dal casello autostradale di Sesto Calende, un militare dell’Arma, imbarazzato, è arrivato a chiedermi il bollo doganale, che non c’entra nulla con la circolazione stradale e al massimo può interessare alle autorità elvetiche. I più carini sono stati i poliziotti che mi hanno fermato a Francavilla Fontana, nel Brindisino: domande su domande, e come fa a fare questo e come fa a fare quello, talmente curiosi che non mi lasciavano andar via».
È vero che lei e sua moglie siete più in viaggio che a casa?
«È vero. A primi di agosto torneremo in Puglia, a Torre Canne, e ci resteremo fino al 27. E il 29 partiremo per Bormio, da dove ce ne andremo solo a fine settembre, quando chiuderanno l’albergo».
Perché proprio a Bormio? Ci fa freschetto a settembre, il termometro scende sotto i 10 gradi.
«È il paese dove ci siamo sposati. E poi c’è Chiara che ci aspetta. Ha 37 anni e da 15 è tetraplegica, paralizzata nel letto per le lesioni spinali riportate in un incidente di moto. Le teniamo compagnia, la sproniamo. Ha già cominciato a dipingere con la bocca. Anche se il raggio d’azione del pennello, a causa dell’immobilità della testa, non supera i 10 centimetri».
Che cosa pensa di quest’Italia dove tutti aprono la bocca a sproposito?
«Sono piuttosto scioccato dalle liti e dal chiacchiericcio senza costrutto. Ho l’impressione che negli ultimi vent’anni il genere umano si sia inesorabilmente avviato verso il declino».
È stata una privazione dura non poter mai accarezzare sua moglie e suo figlio?
«No. L’amore non ha bisogno delle mani».
Ma c’è qualcosa che proprio non le riesce di fare?
«Ballare».
La definizione «diversamente abile» le sta bene?
«Mi ha sempre stupito questa formula ipocrita per camuffare una realtà che invece è quella che è. Io sono un handicappato. Non è mica una parolaccia. Anche lei, che porta gli occhiali, ha un handicap».
Le capita mai di fantasticare su come avrebbe potuto essere la sua vita?
«Sì. Da piccolo mi sarebbe tanto piaciuto fare il chirurgo. Ma purtroppo, con queste mani...».
(504. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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