«Dirigo Vivaldi alla Scala ma son cresciuto col jazz»

L’autore di «Don’t worry, be happy» lunedì sul podio della Filarmonica

da Milano

Salirà sul sacro podio della Scala fedele alla massima che, tradotta in musica, gli ha guadagnato uno dei suoi dieci Grammy Awards: Don’t worry, be happy. Già, il song eletto, nel 1988, a canzone dell’anno e ancor prima, filosofia di vita di Bobby McFerrin, afroamericano, cantante jazz, pop, folk dotato d’una voce dall’estensione sbalorditiva, ma pure pianista e direttore d’orchestra. Il 7 e 8 maggio, il multiartista sarà a Milano per dirigere la Filarmonica della Scala in un programma che abbraccia in un solo colpo Bernstein, Fauré, Vivaldi, Mendelssohn, e in mezzo Solo improvisations dello stesso McFerrin (il secondo dei due concerti sarà in favore dell’Associazione Giovanni XXIII, mentre il 9 si esibirà a Torino ma come vocalist). Sarà la prima volta da direttore, in Italia, per McFerrin che impiega una buona parte del proprio tempo con orchestre come i Filarmonici di Vienna, di Londra e di New York. Così, capita che il cantante-direttore dall’acconciatura rasta salga sul podio di una Scala nostalgica d’antico che decide di mettere il pubblico in riga richiedendo per iscritto (sui biglietti d’ingresso) cravatte, abiti scuri e affini.
McFerrin ci lascia di sale anticipando che dalla Filarmonica si aspetta «tutto il meglio possibile e, soprattutto, di divertirsi». Altro sobbalzo sulla poltrona: alla richiesta di indicare quali siano i direttori italiani cui vada la sua ammirazione, ci sentiamo rispondere: «Il mio idolo è Carlos Kleiber, poi apprezzo il mio maestro, Gustav Meyer. Quando lavoro a una nuova partitura mi rivolgo a lui. I direttori italiani non li conosco».
Ha già messo piede, però, alla Scala?
«Sono stato spesso a Milano, ma ammetto che sarà la mia prima volta alla Scala, tempio della musica noto in tutto il mondo».
Debuttava come direttore d’orchestra il giorno del quarantesimo compleanno, l’11 marzo 1990...
«Sì, con la San Francisco Symphony che mesi prima mi aveva chiesto se facevo sul serio quando avevo espresso il desiderio di dirigerla. Proposi l’unica data libera e la Settima Sinfonia Beethoven».
E iniziò a prender lezioni da Bernstein. Cosa ricorda?
«Lo conobbi quando iniziavo a muovere i primi passi nella direzione, quindi a maggior ragione provavo estrema soggezione. Era un musicista che sapeva farsi amare, un mito, un uomo con cui discorrere di tutto poiché era aperto a tutto. Certo, era tremendamente esigente».
Come legge, a distanza di 20 anni, il successo di Don’t worry, be happy?
«Ero e rimango sorpreso per quel trionfo. Dopotutto è un canto a cappella per giunta buttato giù in fretta, in meno di un’ora, durante una pausa».
È cantante e direttore, passa dal pop, jazz e blues alla musica d’arte. Viene da pensare a due vite parallele, a un dottor Jekyll e Mr. Hide...
«Amo entrambe le dimensioni e le vivo con estrema naturalezza perché sono cresciuto in una famiglia di musicisti che non ha mai posto barriere fra i generi. In casa mia si ascoltavano Duke Ellington, Billie Holiday, Ray Charles, Aretha Franklin, i Beatles e i Rolling Stone, Beethoven e Mozart. È come vivere in Svizzera e parlare diverse lingue: la conoscenza dell’una non preclude quella dell’altra. È come se passassi da una stanza all’altra di casa mia. Mi sento e definisco un esploratore della musica».
La famiglia è sempre stata un’assoluta priorità per lei. Dopo il successo di Don’t worry si ritagliò un intero anno sabbatico...


«Queste scelte mi hanno consentito di vedere crescere i miei figli che ora hanno 15, 21 e 25 anni e amano la musica. Taylor ha collaborato con me in brani di Beyond Words».
Hillary Clinton o Barack Obama?
«Non ho ancora deciso».

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