Il diritto d’informazione per i «repubblicones» è solo arma ideologica

Caro Granzotto, tutti sono d’accordo nel dire che questa legge sulle intercettazioni vìola le libertà costituzionali e imbavaglia la stampa, la quale ha il diritto costituzionale di informare. Ma si dice anche che deve essere salvaguardata la privacy dei cittadini coinvolti nelle intercettazioni e non destinatari di avviso di reato. A me sembra un sofisma, perché se io sono chiamato a testimoniare in un processo, immancabilmente vengo messo in mutande dal rappresentante dell’accusa o della difesa e, pur non essendo incriminato, te la saluto la privacy. Nella rete finiscono pesci grandi e piccoli e vai a vedere se un «Ciao, amore, come stai?» o un «Giovanna, butta la pasta» ci azzeccano o non ci azzeccano con l’inchiesta in corso. Un magistrato ci può leggere un «concorso esterno in associazione criminosa» e un altro no. Per cui ci risiamo, a stabilire cosa vada pubblicato non sarà il buon senso, ma le fregole di un pm.
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Ben detto, caro Santarosa. La sacrosanta battaglia perché sia garantito il diritto all’informazione è viziata dalla incommensurabile mole di ipocrisia che l’accompagna. D’accordo che quella delle intercettazioni è una anguilla, e più cerchi di stringere per cavarne un senso più ti sguscia dalle mani. Ma il senso, che c’è e sai che c’è, perde poi i connotati perché soverchiato dalle manfrine ideologiche e dalla malafede intellettuale della solita compagnia di giro «sinceramente democratica». Prenda Oscar Luigi Scalfaro, nostro giammai rimpianto capo dello Stato e oggi feticcio del popolo della sinistra. Riferendosi alla legge sulle intercettazioni, il feticcio sentenziò: «Non si può abolire il diritto di sapere» che già di per sé è spararla grossa e diventa grossissima se espressa da uno che col «Non ci sto!» precluse agli italiani il diritto di sapere cosa fece della paccata di soldi che in qualità di ministro degli Interni mensilmente riceveva per far fronte a spesucce non soggette a ricevuta.
Ci sono poi le truppe cammellate di area repubblicones che, promuovendo appelli, marce e marcette, raccolte di firme e distribuzione di gadget, spoglia la questione delle intercettazioni dei suoi risvolti civili per farne uno dei tanti piedi di porco col quale tentare di scardinare il governo. Tutto ciò nello spirito, ormai delirante, dell’antiberlusconismo alla «o la va o la spacca» e in ciò confortati da una partigiana lettura del diritto all’informazione, che in mano loro copre il ruolo dell’obbligatorietà dell’azione penale per i magistrati: obbligo, diritto sì, ma con facoltà - e dunque arbitrio - di cernita. Per cui va a finire che ogni bisbiglio riferito a Berlusconi, ai suoi ministri e ai suoi collaboratori ha dignità di stampa. Per il resto, per ciò che esce da gola «sinceramente democratica», non c’è mai tempo, non c’è mai spazio. Non c’è mai interesse. E quando c’è è per minimizzare, per denunciare la violazione della privacy, per ricordare che la trascrizione non tiene conto dell’intonazione, della frase buttata là come una scherzosa battuta («abbiamo finalmente una banca!» fu rubricato come modo di dire dei valligiani piemontesi). Per concludere, caro Santarosa, una larga parte della milizia impegnata in questa «battaglia di civiltà» si oppone alla «legge bavaglio» non per salvaguardare il diritto di informare i lettori, dando loro conto del malaffare del Palazzo e dintorni.

Ma per poter seguitare - qui dico una parolaccia, ma è quella che serve - a sputtanare (anche e soprattutto in assenza di reato) il capo del governo, il governo, la maggioranza e dunque i milioni di elettori che l’hanno eletta. Un gioco sporco. L’unico, d’altronde, che sinistra e repubblicones conoscono.

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