Abbiamo finalmente espulso un immigrato. Ha dieci anni, una frangia biondina e grida «Mamma aiutami». La sua voce spezza il cuore, ma nessuno l'ascolta. Con lei siamo inflessibili. Solo con lei, s'intende. Che grande Paese: se Maria si fosse chiamata Mohammed, se anziché una bimba fosse stata un adulto, e magari con qualche precedente penale, furto, spaccio o rapina a mano armata, col piffero che l'avremmo liquidata così, senza nemmeno aspettare la sentenza d'appello. Un immigrato non si può espellere mentre aspetta che il giudice si pronunci. Siamo o non siamo il Paese del diritto?
Diritto e rovescio: anche Maria aspettava la sentenza della corte d'appello. Eppure lei si può espellere. Solo lei. Si capisce: ha una colpa grave. È una bimba. Pura e divertita come sono le bimbe a dieci anni, persino buona, raccontano le nonne. La sua gioia più grande, nei giorni trascorsi a Genova, è stata scoprire che poteva avere un cassetto per lei. Avete capito bene: un cassetto dove mettere i suoi pochi vestiti. Nell'orfanotrofio bielorusso non ci sono cassetti. E forse non ci sono nemmeno vestiti.
Noi l'abbiamo rispedita lì, in quel Paese lontano, governato da ex comunisti e aspiranti dittatori, dove i bambini non sanno che cosa sia un cassetto anche perché non hanno nulla da metterci dentro. L'abbiamo rispedita lì senza darle diritto d'asilo né diritto d'affetto. L'abbiamo rispedita lì perché Maria ha una colpa grave: non ha mai fatto male a nessuno. Anzi: il male l'ha subito. E tanto, così tanto da trovare la forza di raccontarlo. Violenze, soprusi, piccole torture e angherie quotidiane. Questo accade nell'orfanotrofio in Bielorussia. E perciò noi, che siamo forti e coraggiosi, la rispediamo lì. Ma sì, proprio lì fra i soprusi e le angherie. Che decisionismo, eh? Mai visto in altri casi. Mai applicato per un marocchino adulto e stupratore, per un albanese maggiorenne e delinquente. A loro, si sa, di solito diamo il benvenuto. A Maria, invece, sappiamo solo dare un biglietto di via. Destinazione Orrore.
Ma sì: c'è di che essere orgogliosi, oggi, di vivere in questo Paese: abbiamo finalmente espulso un immigrato. L'unico. Una bimba. Per trovarla abbiamo messo in atto una campagna senza precedenti. Abbiamo diffuso le foto delle nonne: wanted, come nemmeno per i killer del più pericoloso far west. Poi ci siamo mossi di notte: c'era bisogno di un blitz col favore dell'oscurità, no? Ci mancavano solo le teste di cuoio, reparti speciali e cecchini sui tetti: poi il film era completo. Missione impossibile. E anche un po' missione incredibile. Portare via così una bambina non è un'impresa da poco. Ci vuole un bel grado di meschinità.
Verrebbe da dire: Minskinità. E anche roba da Minskioni. Ma questa non è l'ora dei giochi. Non si può giocare, perché nemmeno Maria può farlo. Adesso lei sta piangendo in un orfanotrofio di un Paese che non ha mai conosciuto la democrazia, che non brilla in quanto trasparenza e che ha tradito tutte le promesse. L'ambasciatore aveva detto che dava garanzie: non ne ha date. Ha preferito appoggiare il suo ghigno soddisfatto al blitz notturno. Subito dopo è stata resa nota la sentenza della Corte d'Appello. Gli ha dato ragione. Ma che importa? Maria l'avevano già deportata prima, senza aspettare. E noi glielo abbiamo lasciato fare, anzi: li abbiamo aiutati. Perché noi siamo fatti così: accogliamo tutti gli immigrati come dicono gli agnoletto, i casarini e i baglioni che suonano la chitarra sull'isola di Lampedusa. Siamo aperti. Siamo buoni, equi e solidali. Non chiudiamo le porte in faccia a nessuno. Non respingiamo nessuno.
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