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La disperazione dei coloni: «Meglio bruciare la casa che lasciarla ai palestinesi»

Pur di evitare lo sgombero da Gaza c’è chi minaccia la secessione. E chi prevede: «Presto ci sarà una rivolta»

Gian Micalessin

da Netzanim (Israele)

Eccolo. È il nuovo indirizzo, la destinazione finale di molti coloni. Un tempo Netzanim era solo un kibbutz, 60 chilometri a nord delle colonie di Gush Katif sulla trafficatissima statale 4 tra Gaza e Tel Aviv. Oggi sembra già una vera cittadina. Laggiù nella conca assolata, schiacciata tra due alture, un geometra con scopa, righello e matita ha spazzato i sassi, disegnato una scacchiera di strade e c'ha allineato qualche centinaio di prefabbricati tutti uguali. Trecento e passa sono già pronti. Dentro un pugno di coloni o ex tali vi sperimenta la nuova vita. Arrivano da Dugit, da Eli Sinai e Nizanit le cosiddette colonie non ideologiche del nord della Striscia. Per loro Gaza non era un imperativo religioso o politico, ma una semplice necessità. Per loro ricominciare è in fondo più semplice. Soprattutto se il governo pagherà gli incentivi e i compensi promessi. Ma una sessantina di famiglie arrivano anche dalle 15 colonie del blocco di Gush Katif nel sud della Striscia. Lì nessuno viveva per convenienza, necessità od opportunità. Chi prendeva casa in quell'enclave ebraica stretta tra l'Egitto e i campi profughi palestinesi lo faceva per pura scelta ideologica. E ora per la stessa ragione preferisce non mollare sfidando gli ordini del governo e le unità speciali dell'esercito incaricate di far rispettare i tempi del disimpegno.
Lui, sua moglie e i suoi sette figli non possono, invece, permettersi neppure questo moto d'orgoglio. Lui, non chiedeteci il suo nome, è un ufficiale dell'esercito in servizio attivo. «Avevo due scelte rispettare le mie idee o rispettare la divisa. Scegliere una significava rifiutare l'altra. Così sono andato dal rabbino, e gli ho detto che faccio? Resisto assieme a voi e mi dimetto dall'esercito o metto da parte le mie convinzioni. Lui m'ha proibito di farmi radiare, m'ha ordinato di pensare alla mia famiglia e alla mia divisa... così eccomi qua a scaricar bagagli e ad aspettare». Siamo con lui davanti ad un furgone bianco ed un prefabbricato di novanta metri quadri. Lui si guarda attorno, cerca qualcosa d'attraente in questa sorta d'enorme villaggione turistico. Niente alberi, niente erba, niente ombra. Solo calura, polvere e sassi. Si fa coraggio, spinge la porta, attraversa l'entrata, butta un occhio alla cucina, squadra il salotto, misura le quattro stanze e i due bagni. Un minuto e l'ufficiale padre di sette figli scuote la testa. «È una presa in giro, vivo in 150 metri quadrati, non ho ancora visto un solo shekel di risarcimento dal governo, pago di tasca mia il noleggio dei furgoni per il trasloco e in più dovrò versare 500 dollari al mese per una casa troppo piccola che non ho scelto». A Peath Sadeh, un insediamento poco distante da quello del nostro ufficiale, Nissim Cohen ha mandato via moglie e figli, ha tirato fuori mobili e bagagli ed ha dato fuoco alla casa. «Non mi fido delle promesse del governo - ha detto - magari invece di distruggere le nostre case le venderanno ai palestinesi così piuttosto di darla a loro ho bruciato tutto».
Ora anche il nostro ufficiale è preoccupato. «Due settimane fa ero sicuro che avremmo trovato una situazione. Ora non ne sono più convinto. Sharon, io votavo per lui, prima ci ha fregato politicamente ed ora anche economicamente. La maggior parte delle case non è pronta e quelle pronte sono troppo piccole. La gente quando lo capirà perderà la testa. Per questo ho paura. Non riusciremo ad arginare la rabbia. Alla fine qualche violenza sarà inevitabile, non so proprio come andrà a finire». Dalle sue parti qualcuno un'idea l'ha avuta. I coloni di Kfar Yam, capeggiati dal combattivo storico militare Arye Yitzhaki progettano d'ignorare lo sgombero e di formare un'entità ebraica indipendente. Al «traditore» Ariel Sharon chiedono solo di mandar via l'esercito e dargli in cambio 1700 fucili mitragliatori, 15 mortai e una cinquantina di mitragliatrici per difendersi dagli attacchi palestinesi. La nuova entità ebraica, nei progetti del visionario Yitzhaki, potrà poi chiedere il riconoscimento dell'Onu e avviare un meccanismo di cooperazione con Israele.
Il nostro ufficiale in fase di trasloco continua, invece, a scuotere la testa. «Credetemi mi sembra tutta una follia e alla fine m'illudo ancora che non possa succedere. Stasera sarà shabbat. Dovrebbe essere l'ultimo shabbat nelle nostre case, ma sarà anche la nostra ultima speranza. Pregheremo tutti assieme e alla fine Dio forse ci ascolterà. Lui non può permettere una follia del genere.

E se succederà allora, forse, lui ha un altro disegno per tutti noi».

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