nostro inviato a Bitonto (Bari)
Una lettera. Una raccomandata con tanto di ricevuta di ritorno che per lo scrivente - uomo non privo di una certa sagacia, alla prova dei fatti - potrebbe valere più della più grossa pepita d'oro mai trovata nel Rio Grande. Quando il suo cliente gliel'ha mostrata, l'avvocato Giovanni Capaldi non voleva credere ai suoi occhi. «La metta in cassaforte, ho detto al mio cliente, Domenico Matera - gongola l'avvocato mentre nel suo studio, a due passi da piazza Moro, i suoi telefoni barriscono all'unisono -. Anzi, prima ne tiri delle copie. Ma l'originale la metta immediatamente al sicuro. Questa lettera vale un tesoro. La portiamo a mano al magistrato inquirente, dopo che avremo ricevuto l'avviso di garanzia».
Capaldi, dando prova di un certo understatement molto british, per uno di Bitonto, lo chiama «un nuovo spunto investigativo». In realtà ha tutto il sapore del colpo di teatro. Uno di quei ribaltamenti di fronte che potrebbero sgombrare il cielo dai nuvoloni che si stavano accavallando sulla Ossitalia, l'azienda di Bitonto che mise in opera, e successivamente collaudò, l'impianto di «distribuzione dei gas medicinali compressi» all'ospedale di Castellaneta.
La lettera è dell'ottobre 2005. Destinatari: la Ausl di Taranto, l'Istituto superiore di Sanità e la direzione sanitaria dell'ospedale di Castellaneta. E qui, poiché il colpo di teatro evidentemente non bastava, eccoci in pieno giallo. Perché la lettera - quantomeno la copia spedita all'ospedale di Castellaneta, a differenza di quella portata dal postino all'Azienda sanitaria di Taranto - non c'è più. Sparita. Volatilizzata. Con essa si è vaporizzato l'intero faldone che la conteneva. Qualche traccia se ne troverà forse nel registro del protocollo, che ad ogni buon conto i carabinieri si sono portati sottobraccio in caserma. Dalla direzione sanitaria del «piramidale» nosocomio di Castellaneta la raccomandata - secondo indiscrezioni trapelate in serata - sarebbe stata mandata alla direzione sanitaria della Ausl di Taranto, che a sua volta la girò all'ufficio tecnico della Ausl stessa, dove trovò definitivo ricetto. Un perverso gioco di deliranti triangolazioni in cui trova spazio il misterioso attendismo della stessa Ossitalia che l'11 novembre un certificato di collaudo confezionato sette mesi prima, il 31 marzo.
Nella raccomandata l'amministratore unico di Ossitalia, Domenico Matera, declinava ogni responsabilità sul buon funzionamento dell'impianto che la sua azienda aveva «certificato» sette mesi prima, a marzo. Perché? Come mai?
Spiegava, Matera, in quella lettera, d'aver saputo che in quei sette mesi qualcuno aveva messo le mani sull'impianto «madre». Ovvero su tutta la catena di distribuzione dei gas, non solo sulla derivazione che poi avrebbe veicolato protossido di azoto nella Utic, l'unità di terapia intensiva coronarica, che all'epoca era ancora di là da venire. Così cospicui, erano stati gli interventi affidati a mani estranee alla Ossitalia, che se l'ospedale avesse voluto una ri-certificazione dell'impianto, per così dire, avrebbe dovuto concedere ai tecnici dell'azienda di Bitonto di compiere una verifica.
Si accennava, in quella lettera, a nomi e cognomi di chi aveva messo mano (o manomesso, è forse il caso di dire) all'impianto nell'arco di quei sette fatidici mesi? C'è il nome della ditta subappaltatrice che si era vista assegnare l'incarico? L'avvocato Capaldi nega. E neppure sa spiegare (non tocca a lui, ad ogni buon conto) perché la direzione dell'ospedale, o l'Ausl, avrebbe dovuto assegnare ad altri certi lavori su un impianto già collaudato da Ossitalia. «Ci sono esigenze istruttorie. Dopo che avremo parlato col magistrato saremo in condizione di fare il punto. Ora è troppo presto», taglia corto il legale di quello che fino a ieri era il capro espiatorio principe dell'orrendo guazzabuglio. La sola cosa che sappiamo è che nessuno, dice Capaldi, si prese la briga di rispondere alla raccomandata (acquisita agli atti, in copia, dai carabinieri del Nas) di Domenico Matera. La classica lettera morta. Morta come gli otto pazienti che invece di respirare ossigeno nel modernissimo ospedale della «città del mito» respiravano azoto.
C'entra la politica? Ovvero: può essere che a un certo punto sia sorta la «necessità», nella distribuzione dei pani e dei pesci cui la Sanità pubblica è aggiogata, come l'asino alla stanga, di assegnare una fetta di torta a un'azienda terza rispetto a Ossitalia? È la domanda cui dovrà dare risposta la Procura della Repubblica di Taranto. Quel che si capisce, è che la salva di avvisi di garanzia in partenza dal Palazzo di giustizia potrebbe fare alla fine lo stesso rumore di una katiusha.
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