Il «dittatore» suona la carica: «Sarà battaglia»

«Paraguayos, a la cancha, a triunfar!». Gerardo «El Tata» Martino sfiora le corde del nazionalismo per caricare l’Albirroja, anche se le sue parole hanno il sapore anacronistico di certi discorsi presi in prestito da generali golpisti indultati nei loro Paesi per aver deposto le pistole sui tavoli del potere politico o giudiziario. Martino per altro è figlio dell’Argentina dei Videla, dei Massera e degli Agosti, ma da quattro anni ha sposato la causa del Paraguay, con la benedizione del presidentissimo, ed ex vescovo cattolico, Fernando Lugo. Un matrimonio iniziato col passo giusto perché nello sfibrante girone di qualificazione i ragazzi di «El Tata» hanno fatto il bello e il cattivo tempo. Sono partiti di slancio con cinque vittorie consecutive, liquidando il Brasile 2 a 0 nell’inespugnabile fortino (al limite del regolamento Fifa) «Defensores del Chaco», facendo traballare la panchina di Dunga e bloccando poi l’Argentina di Maradona.
Tutto merito della proverbiale «garra» sudamericana o c’è dell’altro?
«C’è molto di più, mi creda. Tanto per cominciare c’è la voglia di cancellare una maledizione che risale addirittura al 1986, ovvero quella che ci vede sempre fuori agli ottavi di finale. In Messico fu l’Inghilterra di Lineker a spegnere le nostre speranze e nel 1998 il golden gol di Laurent Blanc portò lo sconforto di un’intera nazione che stava assaporando la vittoria sui padroni di casa della Francia. E anche con il vostro Cesare Maldini la musica non cambiò di molto. La Germania ci rispedì a casa. Sempre negli ottavi di finale».
Come considera il girone con l’Italia?
«Molto equilibrato, nel calcio non esistono più cenerentole. Forse la Nuova Zelanda ha qualche lacuna e poca esperienza internazionale, ma noi, azzurri e Slovacchia siamo da dentro o fuori. Questo significa che il passaggio del turno è ampiamente alla nostra portata».
E a quel punto si scontrerà con Olanda, Camerun o Danimarca. Anche queste non proprio cenerentole…
«Sono calcoli e numeri a cui non presto molta attenzione. Ogni partita ha la sua storia. Ogni gara è una battaglia».
Quindi la squadra di Lippi dovrà temere lunedì questo clima bellicoso?
«Ognuno deve saper disporre bene delle armi che ha a disposizione. I campioni del mondo sono tecnici, noi forse più fisici ed è normale a quel punto fare dell’aggressività, nei limiti del regolamento, un punto di forza».
Senza offese, ma la difesa paraguayana con Caniza, Da Silva, Caceres, Morel e Torres sembra tirata fuori dal film Fight Club, quello di David Fincher.
«(sorride, ndr) Il Paraguay incarna appieno lo spirito del calcio sudamericano. Siamo dei combattenti di razza, ma corretti. Così come i cileni o gli uruguayani».
Pensando però a Denis Caniza, che è riconosciuto come abile collezionista di cartellini rossi, forse gli attaccanti azzurri dovrebbero temere per le loro caviglie...


«No, non c’è solo aggressività in questo gruppo, ma tanta sostanza. Non si batte del resto il Brasile per caso e neppure si ferma una corazzata come l’Argentina con le chiacchiere. Noi ci siamo riusciti, quindi a triunfar!».

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