Dividiamoci la Rai per non farla morire

A come Arbore, B come Baudo, C come Costanzo, e via dicendo, l'alfabeto intero della tv è stato convocato da Z come Zavoli, presidente della Commissione parlamentare di vigilanza della Rai e soprattutto decano storico della medesima, per discutere del Pachiderma Seduto. Dico la Rai, naturalmente. Ne parlo perché sono i giorni del canone, e una riflessione ci tocca, in modo tassativo. Impressiona notare che la convocazione degli stati generali della Rai, autori e personaggi, critici e parlamentari, sia caduta in un assordante silenzio. E questa è, a mio parere, la vera notizia: per troppo tempo l'azienda pubblica televisiva è stata protagonista più che testimone del nostro Paese, ha scatenato tremende guerre mediatiche e politiche. Ora scivola in un marginale silenzio, per molti versi preferibile rispetto alla chiassosa tele-patia dei tempi scorsi. Tregua o declino, sospensione momentanea di interesse sul Carrozzone canonizzato oppure rassegnata convinzione che la tv sia un'inguaribile metafora di un Paese declinante, destinata essa stessa a perdere peso e valore? All'impossibile riforma della Rai ho dedicato anch'io un intervento in quel convegno clandestino. Ma se permettete, vorrei approfittare del silenzio sulla Rai per rilanciare la questione del servizio pubblico, del canone e della necessità di cambiare la guida della principale azienda culturale del Paese. Facciamo un premessa. Servizio pubblico si traduce in una domanda concreta: la Rai oggi migliora il livello civile e culturale degli italiani? La risposta, a mio parere, è una e trina. In piccola misura sì, fa crescere la qualità civile e culturale del Paese, con alcuni programmi e alcuni servizi di pubblica utilità; in misura altrettanto minore, ma temo più cospicua, concorre a peggiorare la qualità civile del Paese, perché lo rimbecillisce nello svago idiota e lo incattivisce nella faziosità. E in misura prevalente è del tutto ininfluente sulla qualità civile e culturale degli italiani, non li fa crescere né decrescere, semplicemente li intrattiene. Nel complesso serve poco e a volte male alla sua ragione sociale e al suo ruolo di servizio pubblico. Così diventa un ramo dell'industria per il peggioramento della specie. Fatta questa premessa, lancio una proposta preliminare: perché non si può trasformare di fatto il canone televisivo in azionariato popolare della Rai? Ovvero, chi paga il canone ottiene in compenso una quota di partecipazione alle azioni della Rai. E diventa di fatto sovrano, con gli altri azionisti pubblici (a cominciare dal Tesoro) e con i cittadini tutti che pagano il canone televisivo. Eleggendo tra i suoi azionisti anche un rappresentativo campione che valuti la qualità dei programmi da tener presente al pari dell'Auditel.
Sarebbe un modo per superare senza eludere la questione del canone sollevata dal Giornale. Sarebbe un atto non solo simbolico di riconoscimento di servizio pubblico e del primato dei cittadini utenti nell'azienda. Il mutamento dovrebbe a mio parere avere come primo, concreto effetto, un nuovo criterio di designazione dei vertici della Rai. Via inutili, pomposi e pletorici consigli d'amministrazione (lo dico anche per esperienza personale), basta con vertici ingessati e bizantini. Lasciamo la guida della Rai ad una terna arbitrale. L'arbitro è il direttore generale, che dovrebbe essere soprattutto direttore editoriale, cioè provenire dal mondo stesso della tv, essere come si suol dire esperto del prodotto. Al suo fianco i due segnalinee: un vero amministratore, un manager di lungo corso, e un prestigioso garante istituzionale e culturale.
Il direttore generale viene scelto dal governo attraverso il ministero del Tesoro, azionista di riferimento dell'azienda; l'amministratore viene invece eletto dall'assemblea degli azionisti su una rosa di nomi, e dunque dai rappresentanti dei cittadini e utenti; e il garante viene nominato dal Parlamento, attraverso la Commissione parlamentare di vigilanza. Il primo guida l'azienda e ne risponde; il secondo fa quadrare i conti; il terzo garantisce il ruolo di servizio pubblico e l'impegno alla crescita civile e culturale del Paese. Ovvero il primo ha un ruolo editoriale, il secondo un ruolo tecnico-amministrativo e il terzo un ruolo culturale e istituzionale. La terna dura almeno un triennio. Il direttore generale ha pieni poteri e ampia fiducia durante il suo mandato. Può essere sfiduciato solo se contravviene palesemente e gravemente ai suoi doveri riguardo ai conti e al servizio pubblico e su indicazione concorde dei due segnalinee il governo medesimo gli ritira il mandato. Idem per le altre due figure arbitrali: se viene meno al suo impegno e su indicazione concorde delle altre due figure viene sfiduciato, viene rimesso il suo mandato a chi glielo ha dato, il Parlamento o gli azionisti popolari. Altrimenti la terna arbitrale risponde di quel che ha fatto solo alla fine del suo mandato. Controindicazioni e obiezioni? Tante, sicuramente. Ma quasi tutte minori rispetto ai vantaggi che produrrebbe, alla semplificazione degli assetti, alla trasparenza dei mandati e alla coerenza di un'azienda guidata da un uomo indicato dal governo e controllata da un uomo indicato dal Parlamento e da un altro indicato dagli azionisti popolari. I problemi che potrebbero insorgere sono possibili ma credo minori rispetto ai guai che di fatto crea l'attuale, farraginosa struttura della Rai. L'attuale struttura è fatta per non decidere e non cambiare, ma concertare, cercando un accordo a somma zero che di solito produce inerzia. Tu vuoi fare una cosa bianca, io una cosa rossa, lui una cosa nera, il punto di accordo è lasciare le cose come stanno, rimandare o ridurre a francobolli il mio bianco, il tuo rosso, il suo nero. Così muore la Rai.

Se il proposito è quello, è preferibile l'eutanasia, ovvero la consapevole, deliberata decisione di staccare la spina alla Rai. Ma se ancora credete al suo ruolo, o addirittura alla sua missione, un tentativo forte dovete pur farlo, a cominciare dalla definizione di chi la deve guidare. Abbiamo trasmesso Tre minuti di Utopia.

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