Il divino Antonello da Messina a Venezia pittore non umano

Un'occasione per rileggere l'artista, accostando i pezzi più rari e meno visti

Il divino Antonello da Messina a Venezia pittore non umano

Si ritorna a Antonello nella mostra da me voluta a Palazzo Abatellis, nel breve e fruttuoso periodo in cui fui assessore alla cultura della Regione Sicilia. L'occasione era ghiotta per la scelta governativa di indicare Palermo come capitale italiana della cultura 2018. E finalmente la rinascita di Palermo si è avvertita attraverso la cultura. E se, sul versante dell'arte contemporanea, l'amministrazione comunale ha scelto il processo coinvolgente, in tutti i principali monumenti della città, di «Manifesta», la Regione, per mia volontà, ha proposto iniziative che esaltassero i momenti più alti della tradizione siciliana, dalla ricomposizione del «Kouros» di Lentini, diviso fra Catania e Siracusa, alla regale e seducente Franca Florio di Giovanni Boldini, restituita a Palermo dal gesto magnifico di mecenatismo dei baroni Berlingeri. Ma il momento più alto delle numerose iniziative dell'anno della cultura è esattamente la mostra di Antonello che solo una miope visione localistica poteva rallentare, con la minaccia di negare i prestiti alla Regione, nel suo capoluogo, delle opere di due musei della Regione: quello di Messina, di invereconda e respingente architettura, e quello di Siracusa.

La grande mostra dunque ha annaspato nella sua composizione fino a oggi, inaugurando con sommesso distacco e minacce di sommosse. Eccola: Antonello da Messina, con la coda del capolavoro del figlio Jacobello, concepito un anno dopo la morte del padre (1480). In questo dipinto, di mondana, compiaciuta eleganza, si legge il più alto riconoscimento al pittore siciliano. Jacobello si dichiara infatti filiu non humani pictoris. La produzione di Antonello si divide tra Sicilia e Venezia, e questa mostra è importante perché consente di focalizzare il primo periodo siciliano, accostando tutte le opere utili tra le rare e meno viste. La tavoletta dipinta sulle due facce, la Madonna con il bambino benedicente e un francescano in adorazione da un lato, e il Cristo in pietà, dall'altro, che feci acquistare alla Regione nel 2003 da Christie's a Londra. Un vero e proprio incunabolo antonellesco, che precede la grande tavola che sigilla il periodo siciliano del pittore, l'Annunciazione di Palazzolo Acreide, pervicacemente contesa, e senza veridici problemi di precarietà di conservazione, essendo oggi una tela, su un supporto quindi elastico, da un trasporto dalla tavola ab antiquo ammalorata.

Ma il momento più interessante della mostra, oltre all'episodio antropologico del Ritratto di ignoto marinaio del museo Mandralisca di Cefalù, è nell'accostamento dei due trittici o polittici, quello di San Gregorio a Messina, datato 1473, e quello degli Uffizi, da me tenacemente ricomposto in palazzo Bagatti Valsecchi a Milano. Per la prima volta è possibile vedere uno a fianco dell'altro i due capolavori nati nello stesso tempo e probabilmente nella stessa città, con il virtuosistico esercizio prospettico sperimentato contro il fondo oro. Molto vicine le due Madonne, di confidenziale dolcezza, con gli angeli nella medesima attitudine di incoronarla, quasi infastidendola. Il glorioso fondo oro è contraddetto dalla potenza monumentale dei santi entro ampi spazi prospettici nell'area inferiore. Ma non direi che il San Benedetto del trittico degli Uffizi, che fu acquistato misteriosamente e separatamente in una transazione favorita dalla casa d'arte Finarte, dalla Regione Lombardia per il museo del Castello sforzesco, abbia «poi raggiunto Firenze» (con le sue rigide gambe), come scrive Carlo Federico Villa, fingendo di ignorare che la ricomposizione del trittico è frutto di una mia precisa volontà, in un accordo tra la Regione Lombardia (proprietaria dello scomparto), e gli Uffizi, in occasione dell'Expo 2015. Tanto più prezioso è quindi il confronto con il polittico di San Gregorio, in questa occasione. Comunque, con questo omaggio alla grande tradizione dei fondi oro sembra chiudersi il primo, solenne, tempo siciliano di Antonello.

Dopo queste perspicue ricerche prospettiche in un campo avverso, sarà un altro l'uomo che ritroveremo, nella piena maturità, a Venezia, fra il 1474 e il 1475, dopo aver attraversato l'Italia, incontrato o visto Piero della Francesca, e certamente incrociato a Pesaro quel Giovanni Bellini, suo coetaneo, che, più intelligente di tutti, saprà più prendere che dare. Non è noto chi avesse chiamato Antonello a Venezia, per un soggiorno che ebbe una durata di meno di due anni. In ogni caso Antonello, forse già accompagnato dal figlio Iacobello, che pochi anni dopo ne erediterà la bottega, ebbe a Venezia un numero eccezionale di commissioni: ritratti di personaggi come il Condottiero del Louvre (1475) e quelli di Michele Vianello e Alvise Pasqualino, e tavolette «ponentine» come la Crocifissione di Anversa (anch'essa del 1475) e il San Girolamo di Londra, con le due grandi pale per le chiese di San Cassiano e di San Giuliano, la prima, frammentaria, ora a Vienna, già attribuita a Bellini, mentre della seconda resta solo il pannello con il San Sebastiano, ora a Dresda, pure ritenuto del Bellini finché non lo restituirono puntualmente ad Antonello il Crowe e il Cavalcaselle. E in effetti lo spirito belliniano in queste opere è tale da giustificare le confusioni di un'epoca che ignorava del tutto la consistenza della persona artistica di Antonello, né poteva, dopo tante dispersioni, trovare riscontro ai riconoscimenti che gli avevano tributato il Vasari (1568) e il Sansovino (1581), indicando nel suo arrivo a Venezia una svolta decisiva per la storia della pittura veneziana.

Dopo una chiamata a Milano da parte di Galeazzo Maria Sforza, nel marzo 1476, Antonello ritorna a Messina nel settembre dello stesso anno, per sistemare i suoi affari e dipingere opere come l'Annunciata di palazzo Abatellis, la Crocifissione ora alla National Gallery di Londra, il Cristo alla Colonna, già Cook, il ritratto Trivulzio di Torino, che non poterono essere tutte eseguite durante il breve soggiorno veneziano.

Ma certamente esso fu così incisivo da determinare le scelte artistiche di almeno due fedelissimi: Alvise Vivarini e Jacopo da Valenza, oltre al grande Giovanni Bellini, curioso e sensibilissimo quarantacinquenne al momento del rapinoso passaggio di Antonello. Un benefico vento del Sud.

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