Dal divorzio Gm al colpo Chrysler: «Lavoro concluso»

La notizia che Luca Cordero di Montezemolo lascia la presidenza della Fiat sembra fatta apposta per scatenare dietrologie. Soprattutto per i modi, il contesto in cui è maturata ed è stata resa pubblica. Neanche un mese fa, il 26 marzo, si è svolta l'assemblea degli azionisti e sarebbe stata quella la sede appropriata per annunciare un cambio di vertici. Invece nulla: Montezemolo e il suo amministratore delegato, Sergio Marchionne, sono comparsi assieme di fronte al popolo dei soci come due compagni di viaggio contenti di stare assieme. Ieri il colpo di scena: in mattinata i rumors, poi le prime dichiarazioni, infine la conferenza stampa improvvisata con la conferma dell'uscita di Montezemolo, sostituito da John Elkann. E questo alla vigilia della presentazione, da tempo fissata per domani, del piano industriale 2010-2014 che dovrà dire tutto su quanto la Fiat farà e sarà dopo il matrimonio con la Chrysler. Ciliegina finale: la Borsa, che non è una creatura fragile e impressionabile come tanti amano dire, ha reagito con aumenti vistosi del titolo, con punte del 10 per cento.
Ce n'è quanto basta, e in abbondanza, per caricare le penne degli amanti del genere potere&coltelli i quali garantiscono esserci aria di complotto, odore di veleni. Avranno ragione? Nelle dichiarazioni pubbliche dopo l'annuncio e durante la conferenza stampa, Montezemolo ha escluso qualsiasi ipotesi di strappo: «È giunta alla fine una fase di traghettamento. Ho concluso il mio lavoro iniziato nel 2004 - ha detto -. Di fronte a un piano industriale che apre un ciclo nuovo per la Fiat ho ritenuto che il mio ruolo fosse terminato».
Il «traghettamento» è incominciato per la precisione il 27 maggio 2004 a poche ora dalla scomparsa di Umberto Agnelli, fino ad allora numero uno della casa automobilistica. L'azienda era nei guai: i suoi modelli non vendevano, la situazione finanziaria era pericolante, la Borsa valutava il titolo più o meno a 5 euro, uno dei livelli più bassi di sempre. Ma a spaventare era anche un'insidia interna: l'allora amministratore delegato, Giuseppe Morchio, sembrava voler approfittare delle difficoltà per assumere la presidenza e di fatto il controllo del primo gruppo industriale italiano. Era indispensabile che la famiglia reagisse, individuando un suo candidato. John Elkann, l'erede naturale, era troppo giovane così la scelta era caduta su Montezemolo, da sempre vicinissimo agli Agnelli, affiancato da un manager allora conosciuto da pochi, appunto Marchionne.
La coppia ha avuto successo: ha rotto il fidanzamento con General Motors guadagnandoci 2 miliardi di dollari; ha recuperato con decisione quote di mercato; ha risistemato la situazione finanziaria; ha riportato il titolo oltre quota 15 euro. Poi c'è stato il collasso dei mercati, la crisi che ha colpito l'industria automobilistica rivoluzionando gli scenari globali. È nata l'alleanza con la Chrysler e quel «piano industriale che apre un ciclo nuovo per la Fiat». Domani si saprà che cosa c'è davvero in quel piano di tanto rivoluzionario da spingere Montezemolo alla scelta di lasciare il Lingotto. Molto probabilmente lo spin off dell'auto, molto atteso dai mercati, anticipatore di un graduale allontanamento del gruppo dalle quattro ruote, da anni distruttrici di ricchezza.
Ma il piano conterrà anche, nei fatti e non più solo nelle enunciazioni, i tagli occupazionali ritenuti indispensabili per recuperare efficienza e produttività. Tagli dolorosi, come la chiusura dello stabilimento di Termini Imerese. Una misura che non piace a nessuno, meno che mai a un brillante imprenditore che di tanto in tanto accarezza l'idea di scendere in campo. A chi gli chiedeva, ancora ieri, se intenda entrare in politica, Montezemolo ha risposto con un secco no.

Ma il giorno stesso, parlando a Firenze, affermava: «Bisogna cambiare legge elettorale e rimettere le preferenze: l'elettore deve poter scegliere»; o ancora: «Si teorizza di riforme istituzionali come fossero saponette». Ma non è un parlare da politico questo?

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