Il dongiovanni caduto sotto il fuoco amico

La sua barbetta seduceva le donne, non i nemici politici che lo eliminarono mentre volava di ritorno dall’Egitto in un’azione di guerra poco beneaugurante...

Quando Maria José di Savoia si recò nella sua esotica residenza, il giornalista la accolse in pompa magna e subito si appartò con lei. L’entourage ci ricamò su, come era ovvio trattandosi di una bella donna e di un dongiovanni con barbino strappabaci qual era il Nostro.
Ma, nella stanza, i due parlavano di politica. Lo facevano a ogni incontro coinvolgendo, quando c’era, anche Umberto, il consorte di Maria José. L’argomento era sempre lo stesso: il rischio che l’Italia entrasse in guerra al fianco di Hitler. Il Duce era ancora indeciso, ma il Nostro era sicuro che si sarebbe schierato coi nazisti. La considerava una iattura, in piena sintonia con la coppia reale. Non essendo tipo che le mandava a dire, aveva più volte ripetuto ai vari gerarchi: «Finirete tutti a fare da lustrascarpe ai tedeschi». Lo aveva detto anche a Galeazzo Ciano, il genero del Duce, che sul suo Diario aveva scritto irritato: «Ingegno scarso, assoluta infedeltà, capace di tutto: ecco com’è. Conviene tenerlo d’occhio».
Il giornalista, in effetti, era andato più in là delle parole. In Italia lo ignoravano tutti, forse con l’eccezione di Mussolini e Ciano che, però, fecero finta di nulla. In Sud America, invece, la notizia del complotto era nota. L’aveva pubblicata El Tiempo di Bogotà il 10 ottobre del 1939 con una corrispondenza dall’Italia di Franck Stevens, giornalista statunitense. L’articolo descriveva per filo e per segno quella che sarebbe passata alla storia come «la congiura delle tre barbette». Secondo il resoconto, la defenestrazione di Mussolini da parte del Gran Consiglio doveva essere anticipata di quattro anni rispetto a quella davvero avvenuta il 25 luglio ’43. A pianificarla, le «tre barbette», cioè il Nostro, Dino Grandi, che fu poi il protagonista dell’effettiva cacciata del Duce il 25 luglio, e il quadrumviro Emilio De Bono che, per avere firmato l’«ordine del giorno Grandi» sarà fucilato a Verona nel ’44.
Il piano del ’39, secondo Stevens, era identico a quello realizzato quattro anni dopo. Far votare dal Gran Consiglio la sfiducia a Mussolini, dando così la possibilità a Vittorio Emanuele III di licenziarlo. Affidare il governo a Badoglio (ma il Nostro contava, con l’aiuto di Umberto e Maria José, di essere lui il prescelto) e denunciare all’istante il «Patto d’acciaio» con la Germania nazista. Allearsi con Francia e Inghilterra in caso di entrata in guerra dell’Italia. Il progetto era però abortito, sempre secondo il fenomenale Stevens, per la contrarietà di Pio XII, appena salito al Soglio. Il principe Umberto, che per i legami col Nostro era complice del piano, ne aveva infatti messo al corrente il Papa chiedendogli consiglio. Il Pontefice, dopo averci riflettuto due giorni, aveva detto: «Temo che l’uscita traumatica di Mussolini favorisca l’avvento di una guerra civile e di un razzismo pagano». Era un «no» severo e la cosa finì lì, in attesa di momenti più propizi.
Probabilmente era di questo che, alcuni mesi dopo, giornalista e principessa stavano parlando nella stanza della residenza africana in cui li abbiamo lasciati. Terminato il colloquio, i due si salutarono con la promessa di rivedersi presto. Maria José ripartì per l’Italia.
Il 28 giugno 1940, diciannovesimo giorno di guerra dell’Italia al fianco di Hitler, l’aereo con a bordo il «complottardo» fu abbattuto al rientro da una missione in Egitto. Col giornalista viaggiava Nello Quilici (padre di Folco), direttore del Corriere Padano, quotidiano di Ferrara, la città del Nostro. A centrare lo SM 79 furono le batterie costiere italiane o quelle dell’incrociatore «San Giorgio» incagliato nella rada di Tobruk. Un caso classico di fuoco amico, giustificato con la circostanza che lo SM 79 si trovava sulla stessa rotta utilizzata dagli aerei nemici. Messo a segno il colpo, gli artiglieri applaudirono entusiasti. Era la loro prima azione di guerra e era stata coronata da successo. Solo quando l’aereo passò precipitando sulle loro teste si accorsero che era italiano. Questa fu la versione ufficiale, ma il sospetto del dolo resiste ancora oggi.
Al funerale, la vedova, contessa Florio, sussurrò a ciascuno di quelli che l’avvicinavano per le condoglianze: «È stato lui a uccidere mio marito», e intendeva Mussolini. Il quale, al momento dell’incidente, era in Piemonte con Badoglio in visita alle truppe. Alla notizia, non batté ciglio.

Chiese solo a Badoglio chi potesse sostituire il defunto nell’alto incarico che ricopriva. Più tardi, ripensando a lui, il Duce disse: «Era un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi».
Chi era?

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