C è donna e donna. E poi cè lei, la prima. Teresa Rivero. Dice niente? No? Bisogna partire da qui: calcio, Madrid senza Real e senza Atletico, quindi Rayo. Madre, nonna, padrona e presidentessa. Una volta si presentò negli spogliatoi a partita appena finita creando imbarazzo e qualche sorriso. Capì e se ne uscì così: «Ho tredici figli, 36 nipoti. Sapete quanti ragazzi come questi ho visto nudi?». Era il 1991, una vita fa. Entrò nel mondo del pallone per diritto dinastico, subentrando al marito appena morto: «Me lha chiesto lui e non potevo certo dirgli di no». Quello stesso giorno, doña Teresa fece sorridere tutta la Spagna e preoccupare i tifosi del Rayo: «Devo dire la verità, fino a oggi io non ho mai visto veramente una partita di calcio. Lunica volta che sono stata allo stadio è accaduto qualche mese fa contro il Murcia, qui in casa».
Ecco, 17 anni dopo, lo stadio dove non era mai stata, porta il suo nome: Estadio Teresa Rivero. Perché lei non è solo rimasta, ma sè presa la squadra e la società per farle sue. Combatte. Piccola, perché il Rayo non ce la fa a competere con il Real e con lAtletico. Così ogni anno, Teresa convoca una conferenza stampa e riassume le sue contestazioni: «Non capisco perché la municipalità di Madrid finanzia con contributi pubblici il Real e lAtletico e a noi rimangono le briciole». Puntuale, ad agosto. Si arrabbia, si agita, si ribella. Presidentessa vera, perché gli stessi Vallecas che nel 91 inorridirono di fronte alla confessione da «incompetente» adesso non la cambiarebbero con nessuno. Fa niente che il Rayo sia in segunda division. «Meglio liberi e poveri, che schiavi e ricchi», dice lei e la gente la segue. Roba da non credere, così come nessuno crede che Hugo Maradona fosse stato scelto direttamente da lei perché pensava che fosse Diego.
Cattiverie maschiliste, queste. Almeno così ha scritto doña Teresa nel suo libro Locas por el futbol («Pazza per il calcio») che oggi è una specie di manifesto politico pallonaro nel quale la Rivero ha raccolto i suoi pensieri sul suo calcio: «Non riesco più a stare senza stadio. Se non si gioca la domenica mi sento persa.
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