Le donne del beat erano più rivoluzionarie del ’68

«Guardavo quella ragazza inaudita che ballava sulla pedana del Piper. Inaudita non perché fosse bella da vertigine, ma da quanto fosse inedita. E inaudita era la sua danza solitaria e struggente, a metà strada tra una marcia trionfale e un ancheggiare diabolico: di un erotismo che ti arriva al cervello e ne fa un rogo». Lo stupore del giovane Giampiero Mughini al Piper nel 1965 descrive al meglio la rivoluzione del costume, quella apolitica e ingenua splendidamente descritta nel libro di Franco Brizi Le ragazze dei capelloni. Icone femminili beat e yé-yé. Un volume, prevalentemente fotografico, che è album dei ricordi di come eravamo ai tempi del boom economico, con un occhio alle sirene americane del rock che portavano i «magici» juke box (agli inizi dei ’60 da noi sono 15mila e cinque anni dopo dieci volte di più), coi capelli corti che si allungano mentre le gonne si accorciano (prima che la «bomba» Mary Quant arrivi anche qui le ragazze escono di casa e appena chiusa la porta tirano su di quattro cinque dita il bordo della gonna). «Noi siamo i giovani/ i giovani più giovani/ siamo l’esercito, l’esercito del surf», cantava nel ’64 il sex symbol Catherine Spaak evocando la California dei Beach Boys. Ma la Spaak che c’entra con la rivoluzione, con i beatnik che nel ’65 invadono piazza di Spagna e organizzano il movimento pacifista? Ma perbacco - dice chi la sa lunga come Mughini - la vera rivoluzione è stata quella del costume e soprattutto del sesso, «altro che i nostri sproloqui sulla Cina e su Cuba che non sapevamo neppure dove stessero sulla carta geografica». Si volta pagina: non più casalinghe rassicuranti ma femmine «pericolose» e piene di ormoni. Il trionfo del nuovo look (che non è l’omologazione al silicone di oggi) e delle canzonette, magari non impegnate ma intelligenti che arrivano a un pubblico enorme dove non arriva il volantino dei gruppi politicizzati.
Mille sono le icone femminili, alcune entrate nel mito, altre inesorabilmente dimenticate come la milanese Cocky Mazzetti, la prima a mostrare l’altra faccia della canzone. Come Mauro Lusini che scrisse e lanciò C’era un ragazzo per «regalarla» a Morandi. E Cocky, interprete di twist e yé-yé (ma anche di jazz e spiritual), incise La partita di pallone che però diventò un hit di Rita Pavone. Si dedicò a cover di Roy Orbison e dei Righteous Brothers, ma fu presto abbandonata dal pubblico adolescenziale. E chi ricorda Little Pupa, la minorenne che fulminò Sinatra che se la portò in America rimandandola in Italia come una star, ma qui non se la filò nessuno? O Le Amiche, uno dei pochi gruppi beat in rosa? Se pensate di sapere tutto su Patty Pravo andate a vedere le foto dei suoi Caroselli, o Mita Medici che dice: «per noi all’inizio Patty era la provinciale del gruppo», o gli incredibili miniabiti così arditi da far impallidire Galliano e Gautier. Superfluo citare miti come la «zanzara beat» Rita Pavone (la più commerciale di tutte), la «ragazza del Clan» Milena Cantù e soprattutto la superstar Caterina Caselli, se non per dire che debuttò suonando il basso. A vario titolo nello squadrone c’erano Romina Power, Dori Ghezzi (non indimenticabile tra Casatschok e i duetti con Wess), l’introspettiva Marisa Sannia, Giovanna, Giuliana Valci, figura storica del Piper, interprete di brani di Simon & Garfunkel e Battisti, tagliata fuori da Sanremo da Mary Hopkin. La Hopkin, protetta di Paul McCartney, è una delle mille straniere che hanno dominato il nostro mercato: la sua Quelli eran giorni è stata incisa da tutte: nel ’68, caso unico della storia, da noi ce n’erano contemporaneamente quattro versioni (Hopkin, Cinquetti, Dalida, la mitica «cantante scalza» Sandie Shaw). La pattuglia francese vanta Marie Laforet che apre la strada a Françoise Hardy e alla sbarazzina Sylvie Vartan. Dall’America c’è Cher con il marito Sonny, look burino come non mai ma grandi ballad come Bang Bang, le Supremes e le Vandellas, Bobbie Gentry che arriva con il country di Ode to Billy Joe (tre milioni di copie in Usa) e si fa vedere a Sanremo con La siepe insieme ad Al Bano.
Qui c’è di tutto e di più per ricordare quei tempi pionieristici in cui il «Cantagiro» (1962) e «Il disco per l’estate» (1964) fanno le prime, timide apparizioni alla Rai e il Festivalbar diventa la «voce» ufficiale dei juke box. Benedetto Croce diceva che l’unico compito dei giovani «è quello di diventare adulti».

In questa Atlantide che viene a galla pagina dopo pagina, ci sono i (le) giovani che hanno messo le basi della storia di oggi. Se siano solo cosce al vento e qualche canzonetta sta a voi giudicare. Poi è arrivato il ’68...

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