Le donne che vogliono esistere

Non so quante immigrate riusciranno ad attraversare l’Italia, con mille sacrifici, per ritrovarsi tutte insieme la mattina del 28 giugno davanti alle porte del Tribunale di Brescia. Quello che so fin d’ora è che se ne staranno lì ad aspettare, con la dignità e la compostezza di sempre, la decisione di un’altra donna, il giudice delle udienze preliminari Silvia Milesi. Nella prima udienza del processo agli assassini di Hina Salem, il magistrato dovrà stabilire infatti se accettare o no la costituzione di parte civile della più importante associazione dell’immigrazione femminile di fede musulmana. Se riconoscere o no il principio che un’associazione che mi ha conferito la delega a rappresentarla e ha la sua ragione principale nella tutela dell’incolumità fisica e psicologica delle immigrate possa essere ammessa in giudizio in un processo di violenza consumata su una di loro. Nel nome di una solidarietà tra donne che va al di là delle distinzioni di religione, di nazionalità o di razza.
È una decisione storica quella che ha davanti a sé il Tribunale di Brescia. Senza precedenti sul piano legale ma destinata a costituire, come sottolinea Loredana Gemelli, avvocato del fidanzato italiano di Hina, un importante punto di riferimento nel processo di emancipazione delle donne musulmane del nostro Paese. Hina Salem aveva 22 anni, era pakistana e voleva decidere liberamente della propria vita e del proprio futuro: glielo hanno impedito a colpi di pugnale gli uomini della sua famiglia e poi l’hanno seppellita nel giardino di casa con la testa rivolta verso la Mecca perché la sua esecuzione fosse d’esempio a chi osava ribellarsi alle leggi islamiche. È l’ultima di una lunga serie di vittime di una barbarie perpetrata in nome della religione e dell’Islam: qualcuna sgozzata come Hina, qualcuna buttata giù dalla finestra, altre massacrate a bastonate, altre ancora, le più fortunate, finite in ospedale con il corpo pieno di lividi e fratture.
Da troppo tempo le nostre immigrate attendono da noi un segnale di comprensione e di aiuto. Da troppo anni si illudono che qualcuno si accorga della loro presenza e faccia qualcosa per restituire loro dignità e diritti rubati, offrire istruzione e autonomia economica, protezione sociale e tutela giuridica. Se il problema dell’Islam in Europa è il fondamentalismo islamico, le donne dell’immigrazione, si dice, sono la migliore risposta a quel problema, le madri di quegli immigrati di seconda o terza generazione chiamati a dare un senso compiuto alla parola integrazione. Alle loro domande noi non abbiamo mai risposto, anzi abbiamo un governo che si industria scrupolosamente per ignorarle o rimuoverle: non c’è un solo provvedimento, non c’è una sola legge che siano andati a sostegno delle loro richieste. Mentre moschee e scuole coraniche si moltiplicano su tutto il territorio nazionale, fuori dal controllo dello Stato ma nella piena sudditanza degli estremisti che le occupano. Mentre la Consulta islamica, ideata per dettare regole e valori ai fanatici dell’Islam, è poco più che un fantasma che si aggira per le stanze del Viminale accompagnata dai sorrisi di scherno dei predicatori dell’odio e della sottomissione femminile che ne fanno parte. E mentre donne coraggiose che si battono per l’emancipazione femminile, ogni giorno vengono ridotte al silenzio. Con qualsiasi mezzo.
Per questo tante immigrate si sono date appuntamento a Brescia giovedì mattina, senza clamori e senza frastuono, come è nel loro carattere.

Attendono che un’altra donna, una donna con la toga, finalmente dica loro: «Questo Tribunale stabilisce che non siete più invisibili. Vi riconosce il diritto di parlare e dire le vostre ragioni. Il diritto di esistere». Un piccolo passo per le procedure di legge ma un grande balzo in avanti per la coscienza civile di tutti noi.

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