Cultura e Spettacoli

DONNE E ABORTO La fiera delle ipocrisie

A Giuliano Ferrara chiedo di scendere dalla sua cattedra teocon, di accantonare per una volta il compiacimento che la sua finissima testa prova nel polemizzare contro ogni posizione in odore di laicismo o di politicamente corretto e rispondere alla domanda che gli pone l’amico Adriano Sofri su Repubblica: se fosse donna preferirebbe abortire con un intervento chirurgico o inghiottendo una pillola?
Ferrara ha definito l’aborto «il crimine nascosto dell’uomo e della donna moderni, il più grande alla pari dello sterminio degli ebrei d’Europa» e quindi si suppone che non abortirebbe. Come nessuna donna, credo, vorrebbe mai abortire. A differenza di una donna però, Ferrara non sarà mai posto personalmente davanti al problema. Adriano Sofri almeno ammette l’ipocrisia maschile sul tema: «Posso spingere apertamente una donna ad abortire, o vietarle furiosamente di farlo, o lavarmene vilmente le mani, o fare una faccia compunta e partecipe e scongiurare dentro di me che abortisca, e chiederle se preferisce che l’accompagni o se preferisce andarci da sola o chissà...». Però almeno lo dice a chiare lettere: «Credo che non mi piacerebbe essere donna».
A Ferrara non interessa neppure mettersi nei panni di una donna. A Ferrara piace parlare di principi e di grandi sistemi. Invoca una cultura dove l’aborto è un tabù e sogna una società perfetta dove non esistono il male e il dolore. Peccato che la realtà non sia così netta, il mondo è pieno di zone grigie, di territori dove l’Uomo tribola tra dubbi ed errori.
Io parlo da donna di una generazione che non ha vissuto il Sessantotto, che le lotte del movimento femminista le ha lette sui libri. Da donna di una generazione successiva a quella di quanti sono intervenuti finora su questo tema (da Anna Bravo a Eugenia Roccella, da Marina Corradi a Miriam Mafai), ho sempre pensato che le battaglie delle nostre madri siano state eccessive nei toni ma positive nei risultati. Forse non in tutti i casi (molte vittorie della cosiddetta liberazione della donna a leggerle adesso sono delle sconfitte, ma questo è un altro capitolo), però alle giovani della mia generazione è stata risparmiata almeno l’ipocrisia.
Quanto prima era considerato un tabù (dai rapporti prematrimoniali, alla masturbazione, all’omosessualità), oggi è emerso alla luce del sole. Ha reso la nostra società più sporca e brutta, più lasciva e sessualmente depravata? Non credo: prima tutto ciò esisteva lo stesso ma era nascosto sotto una bella patina di conformismo e perbenismo. Penso per esempio alle rivelazioni dei libri di Alfred Kinsey sul comportamento sessuale degli americani, che infransero di un colpo miti e certezze radicate nei secoli, rivelando che più della metà delle donne si masturbava e arrivava al matrimonio avendo già avuto relazioni sessuali o che un quarto delle mogli americane aveva avuto almeno un rapporto extra-coniugale. È stato Kinsey a creare le adultere?
Lo stesso vale per l’aborto, che esiste dalla notte dei tempi, c’è sempre stato e sempre ci sarà. Prima era illegale, adesso è legalmente accettato entro certi limiti e che comunque non sempre vengono rispettati. Prima le donne rischiavano la vita, c’erano le mammane e il prezzemolo, oggi lo possono fare in una struttura ospedaliera. Ormai, per fortuna, solo pochi scalmanati parlano di «diritto» all’aborto e nessuna persona responsabile lo considera un metodo di controllo delle nascite. Si può riaprire il dibattito sulla sua liceità, si può sostenere che è un frutto avvelenato degli anni della contestazione e di quello che fu polemicamente definito «movimento violento e omicida, come tutto negli anni Settanta». Si può vietarlo e rigettarlo nella clandestinità. Ma non si può indulgere in cavilli intellettuali e dire (come Ferrara ha fatto sul Foglio e in una focosa puntata di Otto e mezzo) che con la legge sull’aborto si può convivere tragicamente ma non con la pillola abortiva, «suprema sanzione del carattere doloroso dell’aborto, il suo ritorno al privato, al tragico casalingo». Lo ha ribadito ancora ieri con una delle sue trovate provocatorie e paradossali: «Manteniamo la legge, abroghiamo l’aborto».
Proprio qui sta il punto: l’aborto è un peccato gravissimo per la Chiesa ma non è un reato per lo Stato italiano. Se e finché esiste una legge 194, perché obbligare una donna ad abortire chirurgicamente invece che con una pillola? È mai stato Ferrara in un consultorio pubblico? Ha mai messo piede in un reparto ginecologico dove si praticano aborti? Ha mai visto le facce, l’angoscia, lo squallore, la disperazione, quel groviglio di sentimenti che aleggiano in una corsia ospedaliera?
Ancora una volta, come sempre in Italia, si riduce tutto a una questione ideologica: ingoiare la pillola Ru486 è definito «aborto facile», facendo passare un messaggio assolutamente sbagliato. L’aborto non è mai facile. Proprio Il Foglio ha pubblicato nei giorni scorsi un amaro dialogo tra due donne femministe e pro 194, Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, sulla propria esperienza. Entrambe raccontano di aver abortito: una «a ventidue anni, con assoluta leggerezza» e allora si era sentita una «rivoluzionaria e una donna vissuta, invece era una deficiente». L’altra lo ha fatto a «diciannove anni, clandestinamente e senza alcun rimorso, aveva solo paura del dolore e di morire». Poi ha abortito di nuovo a 25 anni, «in circostanze eccezionali, che non valuterebbe più allo stesso modo». Entrambe insomma, pur femministe e favorevoli alla 194, si sono pentite, hanno portato il peso inespresso di quel gesto del quale una donna non si libererà mai nel corso della sua vita, e ne riconoscono il tormento.
Parlare di «aborto facile» è una finzione linguistica, o meglio, è un vero e proprio ossimoro. «Aborto facile» è un termine che si può usare solo come contrappeso a «aborto difficile», ossia più doloroso. La pillola abortiva banalizzerebbe l’aborto, che invece deve essere vissuto come una colpa. E quindi, meglio se è doloroso. Ferrara accetta l’aborto solo se è accompagnato da una modica quantità di dolore e di paura, perché giustamente nel nostro modo di pensare permeato di cattolicesimo, dolore e colpa vanno a braccetto. E così Adriano Sofri ha amaramente sintetizzato: «Abortirai con dolore».
Non voglio qui entrare nei tecnicismi medici e non so se sia più doloroso o pericoloso abortire chirurgicamente o chimicamente. Invece so sicuramente che non è il dolore fisico a spaventare le donne. Sono abituate da millenni a partorire, hanno confidenza col sangue, con la vita e con la morte forse più degli uomini. È il dolore intellettuale, il peso psicologico di un aborto a spaventare le donne.
Ma Ferrara, con il suo modo di ragionare, non potrà mai entrare nella testa di una donna. Entri almeno in un reparto di ginecologia, dove una donna che ha appena abortito è tenuta nello stessa corsia di una puerpera.

E poi scriva se è più doloroso prendere una pillola e tornarsene a casa oppure languire in un lettino di ospedale con accanto una neo-mamma che allatta.

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