Il doping va in buca pure nel mondo del golf

Il gioco del golf consiste nel mandare una pallina in buca nel minor numero di colpi possibile.
Inquadrato semplicemente così, questo sport, proprio per la sua natura, sembrerebbe essere vaccinato contro la piaga del doping. Ma le cose non starebbero così: a poche settimane dall'ingresso ufficiale del golf nel panorama olimpico, l’inquietante ombra del doping è calata minacciosa sui green dei circuiti professionistici di mezzo mondo.
Anabolizzanti, ormoni maschili e ormone della crescita (per spedire la palla oltre le trecento yards) e betabloccanti (per attenuare il senso d’ansia e il tremore muscolare) avrebbero infatti marcato prepotentemente il loro ingresso negli spogliatoi degli Open dei circuiti pro.
Per la verità, già nel luglio di due anni fa, un grande vecchio, quel Gary Player vincitore in carriera di ben nove Majors, a Carnoustie, in pieno British Open, aveva provato a diradare il clima omertoso che da sempre avvolge il rapporto doping-golf: come nel suo stile, senza troppi giri di parole, il sudafricano aveva infatti denunciato il ricorso a steroidi, anabolizzanti e ormone della crescita da parte di alcuni suoi colleghi, di cui però evitò di pronunciare il nome.
Di fatto Player si ritrovò isolato: alle sue dichiarazioni, infatti, seguirono in coro le secche smentite e le prese di distanza di rito da parte di un mondo sportivo, quello del golf professionistico, che da sempre ha fatto dell’integrità e del massimo rispetto delle regole il suo più bel biglietto da visita.
Oggi, a un anno e mezzo dall’introduzione dei controlli nel Pga Tour americano, quelle stesse regole sembrano essere diventate carta straccia: per la prima volta nella storia di questo sport immacolato, infatti, un professionista è stato squalificato per essere risultato positivo ai test antidoping. Si tratta del quarantenne originario di Memphis, Doug Barron: duecentotrentotto tornei al suo attivo e un terzo posto come miglior piazzamento, è stato sospeso per un anno dal circuito statunitense, dopo che i risultati del suo test avevano provato l’assunzione di sostanze vietate. Si trattava di testosterone e di betabloccanti.
Ma le brutte notizie non finiscono qui: stando alle dichiarazioni rese alla stampa dall'avvocato di Barron, Jeffrey Rosenbleum, in questi mesi la Pga avrebbe trovato positivi (soprattutto alle cosiddette “droghe ricreative”, cocaina e marijuana) altri professionisti, che però, incredibilmente, non sono stati né denunciati, né tanto meno squalificati. Trattandosi infatti di un cosiddetto «doping accidentale», la Professional Golf Association americana avrebbe preferito muoversi (o non muoversi) avendo a cuore soprattutto il pieno rispetto della privacy dei giocatori.
Secondo Donato di Ponziano, vice presidente della Pga europea, il caso Barron sarà «l’inizio di un’apertura obbligatoria: stiamo discutendo di segreti che non si possono tenere - dice -. Il rispetto della privacy dei professionisti deve esistere, certo, ma i comportamenti non sportivi non possono e non devono essere tenuti nascosti. Il pubblico e gli sponsor ci chiedono la verità ed è giusto che la sappiano».
In Italia, intanto, interrogata sul tema, Veronica Zorzi, ventinovenne golfista veronese, vincitrice in carriera di due Open di Francia e attualmente in procinto di partire verso Dubai per l’ultimo torneo della stagione europea, si rifà al rispetto delle regole: «Personalmente ritengo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole con il proprio corpo, ma giocare a golf così significa giocare fuori dalle regole e questo non lo trovo per niente giusto. Nel mio piccolo, ho aderito alla politica antidoping della Federazione Italiana Golf e ho dato la mia disponibilità per essere testata sempre e ovunque mi trovi nel mondo. Ma, sia chiaro, questi non sono i controlli che dovrebbe effettuare il Ladies European Tour, il circuito nel quale gioco».
Cosa significa?
«Significa che, per quanto concerne l’antidoping, il Tour femminile europeo è ancora fermo al punto di partenza: di fatto i controlli, che sono stati annunciati nell'agosto del 2007 e che dal 2008 dovrebbero essere obbligatori, non esistono. Farli infatti costerebbe troppo, dal momento che sono affidati a una società esterna e il nostro circuito, si sa, non è così ricco».
E tu hai mai nutrito sospetti su qualche tua collega?
«Risponderò così: per esperienza so che per aumentare di un chilo e mezzo la mia massa muscolare, devo lavorare in palestra con i pesi quattro volte a settimana per tre mesi. Ed è per questo che non riesco a spiegarmi gli improvvisi cambiamenti e ingrossamenti fisici che ho visto e che tuttora vedo, specialmente tra le giocatrici nordiche».
Quali sono allora le sostanze che secondo te sarebbero coinvolte in questi aumenti muscolari?
«Facile: tutto ciò che gonfia! Anabolizzanti, ormoni maschili e creatina in dosi massicce. Non esistono diete o allenamenti in palestra che possano garantire gli stessi risultati».
Ma tra voi giocatrici si discute mai del problema doping?
«Se ne parla, certo, ma sempre e solo sotto forma di pettegolezzo. Qualche anno fa si puntava il dito addirittura contro una vincitrice dell’ordine di merito, che ora per altro si è ritirata. Nel suo caso si sospettava il ricorso ai betabloccanti».
Ritieni che l'ingresso del golf alle Olimpiadi segnerà una svolta importante nella lotta al doping?
«Me lo auguro.

Spero davvero che i controlli diventino molto più severi. Nel frattempo io continuerò a lavorare e ad allenarmi con serietà: non esistono comunque altri modi per ottenere buoni risultati».
Altri (o altre), purtroppo, non sembrano invece pensarla allo stesso modo.

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