La doppia morale e la casta dei professori

«Non si copia», dice il professore, e intanto cammina lento tra le file dei banchi, lo sguardo minaccioso che scruta gli indiziati di reato: i suoi studenti. Durante i compiti in classe l’imperativo categorico è quello di non copiare, né dal compagno, né dai libri furtivamente aperti sulla ginocchia. Un imperativo morale: si deve pensare con la propria testa e non imbrogliare; e un imperativo molto pratico: il professore deve poter dare un voto che rispecchi la reale preparazione.
Ma cosa succede se è proprio il professore che copia? Proprio lui che ha rotto le scatole a inermi giovanotti minacciandoli e punendoli con voti che portano dritti, dritti alla bocciatura? Quei giovanotti si faranno una bella risata, come nella favoletta del re nudo, e poi, dando una pacca sulla spalla del professore, gli diranno: non te la prendere se ti hanno beccato, adesso sei uno dei nostri.
Lo stupore, invece, la preoccupazione riguardano i genitori che si chiedono con che professori studiano i propri figli. Chi dovrebbe dare l’esempio, pensano, trasgredisce le regole, chi dovrebbe trasmettere il sapere, se copia dagli altri, dimostra tutti i suoi limiti.
Se ora si esce da queste considerazioni generali e si entra in situazioni specifiche, si comprende il clamore e le omertà suscitate dalla vicenda del professor Umberto Galimberti. Gli studenti se la ridono; dicono: bella roba! Avete anche la pretesa di insegnarci qualcosa. La gente, i genitori che pagano le tasse per far studiare i propri figli, sono folgorati, invece, dalla verità: adesso si capisce perché la laurea è carta straccia che non dà opportunità di lavoro ai nostri figli, dicono. Se perfino un professore - si lamentano - che interviene sui giornali e che va in televisione scrive libri che non sono farina del suo sacco, che formazione competitiva potrà mai dare?
Poi c’è la casterella dei professori (che non assurge al potere della casta), la quale getta ufficialmente acqua sul fuoco della polemica, mentre in un frenetico incrocio di telefonate pronuncia sempre la stessa frase: che figura di m... il Galimberti. Pubblicamente, invece, l’understatement è di rigore. Cosa vuoi che sia un libro copiato! E poi, come afferma Vattimo, si citano anche i grandi del pensiero non immuni da scopiazzature, dando a intendere che, se anche i grandi copiano, figuriamoci i piccoli.
Dalla vicenda Galimberti, studenti, famiglie, professori, sembrano tutti, a modo loro, appagati, confermati nelle proprie convinzioni. Gli studenti possono mandare, senza remore, a quel paese il professore che dà un brutto voto; le famiglie finalmente capiscono perché dopo tanti soldi spesi per l’università i loro figli sono disoccupati.
E poi i professori che, vaghi sulla vicenda Galimberti, ritengono l’onestà intellettuale un accessorio un po’ patetico e un po’ ingombrante. E la coscienza si rasserena. A questo punto è cosa umana se a loro si chiede un briciolo di modestia e semplicità. Filosofi come Platone, Aristotele, Kant vengono al mondo raramente, con difficoltà. Capisco sia doloroso ammettere di essere meno intelligenti di loro, però intanto si può mostrare di capirne la filosofia, mettendo tra virgolette il loro pensiero, e poi commentandolo.
Ci sono anche i colleghi, quelli, meschini, che usano le virgolette e che, dopo aver riempito metà del loro libro di virgolette, sperano che l’altra metà sia apprezzata dal collega, che può dimostrare l’interesse citando a sua volta tra virgolette le frasi del libro, mettendo in nota il nome dell’autore, il titolo del libro, l’editore e il numero della pagina.

Se non si fa questo, si è crudeli, come nel film di Charlot. Lui sgobba e suda, poi arriva l’omone grande e grosso che gli strappa di mano il lavoro e va dal padrone dicendogli che quello l’ha fatto lui. Innanzitutto Galimberti ha mostrato questa crudeltà. Poi viene il resto.

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