Enrico Groppali
da Roma
Da parecchio tempo lestroso e lunare Alfredo Arias, regista-autore di punta della colonna di teatranti argentini di stanza a Parigi, si dedica nei suoi spettacoli nostalgici e irriverenti allesumazione dei generi teatrali costruendo,attorno alla mitologia della scena, una sorta di gigantesca allegoria dei ricordi.
È così accaduto che in Luxe lirresistibile Alfredo abbia puntato tutte le sue carte sul revival della Revue Grand Spectacle contrassegnata, in Francia, dallascesa di un mostro sacro come Joséphine Baker. Che in Comédie Policière abbia ridato fiato e voce allintrigo spionistico del noir secondo Agata Christie, che in Histoire du théâtre si sia rifatto addirittura ai comici dellarte e alla lunga teoria degli istrioni da strada. E che in Mortadella abbia persino rivolto uno sguardo, tra ironico e distaccato, alle canzoni di moda nella nostra madre patria. Naturalissimo quindi che, in questa lunga carrellata di omaggi alle più svariate modalità della messinscena e del culto, tra surreale e fantastico, della féerie rientrasse, prima o poi, un personaggio morboso e romantico come il principe dei vampiri, Dracula appunto.
E che David Zard, da tempo convinto assertore del ritorno - coi mezzi e con la musica di oggi - al gran teatro popolare del melodramma, dopo aver indotto Lucio Dalla a rifare la Tosca, abbia commissionato a lui come artefice dellallestimento e alla Premiata Forneria Marconi come autori musicale in pectore la lussuosa confezione al Gran teatro di Roma della cupa storia delle terre transilvane. Con uno spettacolo cominciato già in platea, assai prima dellapertura del sipario, col défilé degli ospiti di riguardo e degli aficionados della musica... Mai numerosi come a questa «prima» sono stati infatti i due vampiri in trine e jabots con finti dentoni penduli sul mento, le diafane bellezze longilinee con lo sfregio scarlatto del rossetto che brillava, a imitazione del morso, sulla loro candida gola e i diavoli in marsina che reggevano, chissà perché, tra le dita la sfera di cristallo degli occultisti. Quando poi è apparsa, tra bianchissimi sbuffi di fumo, la scena monumentale di Roberto Plate col Ponte di Londra che sembrava delle dimensioni delloriginale mentre sul fondo, incorniciato da un sipario nero frangiato doro che somigliava a una gigantesca bara di tela, la sala del truce maniero abitato da demoni e streghe si è rivelata in tutto il suo smaccato fulgore di rosso sanguigno e di sinistri drappi violacei, lapplauso è stato scrosciante. Tanto più quando si è scoperto che gli alti gradini listati a lutto dellinfernale dimora in cui penetra limpavido Jonathan di Davide Benedetti erano abitati da una coorte di diavoli che si muovevano sinuosi e infidi con passi disinvolti e funamboliche arcate somiglianti ai lampi improvvisi che talvolta irrompono nelle quiete notti estive.
Anche se il tripudio del pubblico e lacme della fastosa messinscena ha raggiunto il culmine quando il Dracula massiccio e scattante di Vittorio Matteucci ha fatto la sua comparsa, alternando ai manti arabescati vagamente giapponesizzanti di Graciela Galàn una dorata corazza degna di Parsifal al finale.
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